Alle 7 di ieri mattina la Geo Barents, nuova nave di Medici Senza Frontiere (Msf), ha ritirato l’ancora dal porto norvegese di Alisund, lasciandosi alle spalle le isolette del fiordo. In linea d’aria la sua destinazione è 3mila chilometri a sud, ma per raggiungere la zona di ricerca e soccorso del Mediterraneo centrale deve percorrerne molti di più. Farà due soste tecniche e ci impiegherà almeno due settimane.

In quelle acque ieri c’è stato l’ennesimo naufragio: almeno 17 persone sono annegate, denuncia l’Oim. Erano partite due giorni prima da Zuara, 120 km a ovest di Tripoli. Altri 151 migranti sono stati intercettati dalle motovedette della sedicente «guardia costiera» libica, tra cui la Ubari, e riportati a Tripoli. Con ogni probabilità finiranno in un centro di detenzione. La Sea-Eye 4, alla prima missione, è l’unica nave Ong in arrivo nelle acque internazionali davanti alla Libia. La Aita Mari è in sosta a Marsiglia. La Ocean Viking in quarantena. Le altre quattro in stato di fermo amministrativo.

La Geo Barents è un colosso di 77 metri costruito nel 2007. Batte bandiera norvegese e dopo aver navigato per acquisire dati sismici è stata adattata dalla Ong per le attività di search and rescue (Sar). Ha una clinica, una sala parto e due ponti coperti dove ospitare i naufraghi. A bordo 20 operatori Msf e 12 marittimi.

La Geo Barents in viaggio (posizione ore 21), mappa Vessel Finder

«TORNARE IN MARE è un dovere e un imperativo morale», afferma nella conferenza stampa di presentazione Claudia Lodesani, medico infettivologo e presidente di Msf Italia. L’organizzazione non governativa fondata nel dicembre 1971 da medici e giornalisti francesi ha realizzato attività di soccorso nel Mediterraneo con la Vos Prudence nel 2017 e con la Aquarius, insieme a Sos Mediterranée, fino al 2018. Nel primo caso è stata accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nel secondo rinviata a giudizio per lo smaltimento dei rifiuti. Come tutte le altre Ong non ha mai ricevuto una condanna, neanche di primo grado. Lo scorso anno ha curato la parte medica della prima missione della Sea-Watch 4.

Il ritorno in mare della storica Ong è un segnale forte contro la criminalizzazione delle navi umanitarie. Per l’organizzazione si giustifica, al pari degli altri interventi che realizza a livello globale, con la presenza simultanea di un bisogno e dell’assenza di un’adeguata risposta istituzionale. «In mare il fallimento dei governi ha due facce: la delega ai libici; lo smantellamento del soccorso civile», dice Lodesani.

NEGLI ULTIMI dodici mesi la Guardia costiera italiana ha disposto nove provvedimenti di fermo amministrativo contro le navi Ong, rimaste in porto un totale di 775 giorni. Nello stesso periodo lungo la rotta mediterranea centrale sono morte almeno 1.391 persone (dati Oim). La questione dei fermi amministrativi è il grande spettro che aleggia sui ponti della Geo Barents. «Abbiamo avuto due incontri con la Guardia costiera italiana per discutere standard tecnici e certificazioni necessarie», afferma Marco Bertotto, responsabile delle questioni umanitarie di Msf. La nave ha ottenuto una notazione di classe «rescue» dall’ente di classificazione Bureau Veritas, riconosciuto dallo Stato di bandiera, e un’altra «per scopi speciali».

«Abbiamo fatto tutto al meglio. Non vogliamo offrire alibi a chi ostacola il salvataggio di vite umane attraverso una persecuzione amministrativa. Comunque non abbiamo certezze che non saremo fermati: la Guardia costiera non ci ha dato assicurazioni sulla conformità della nave perché non esiste un documento che chiarisce cosa serve esattamente», spiega Bertotto.

 Ispezione del tipo Port state control sulla Sea-Watch 3, poi fermata

È CIÒ CHE HANNO denunciato nei mesi scorsi le Ong Sea-Eye e Sea-Watch rispetto alle navi Alan Kurdi e Sea-Watch 3 e 4: alle richieste di quali adeguamenti sono necessari per essere in regola, le autorità italiane non hanno mai risposto con chiarezza. Così a ogni Port state control sono state contestate inedite carenze. «Nel 2018/9 (esecutivo Lega-5S, ndr) alle navi Ong veniva impedito di attraccare, nell’ultimo anno non le hanno fatte uscire dai porti. Un’altra strategia governativa contro i soccorsi in mare», dice Lodesani.

DURANTE la conferenza stampa è stato reso noto che le Ong hanno inviato una lettera al dipartimento prevenzione del ministero della Salute, presieduto dal dottor Giovanni Rezza, e al coordinamento tecnico degli Uffici di sanità, marittima e di frontiera (Usmaf). Il tema è quello denunciato nelle scorse settimane da il manifesto: l’utilizzo di quarantene selettive come ostacolo ai soccorsi. Quelli delle navi Ong, infatti, sono gli unici equipaggi per cui non valgono le deroghe ai periodi di isolamento. Paradossale il caso dell’ultima missione della Sea-Watch 4: quarantena di 10 giorni per i naufraghi e di 14 per l’equipaggio. «L’idea che un’ambulanza che ha trasportato un paziente sospetto di Covid-19 sia fermata 15 giorni invece di essere solo sanificata è inammissibile», afferma Bertotto.

Nel Mediterraneo centrale sono attese altre due navi umanitarie: una italiana del progetto ResQ e la Rise Above di Mission Lifeline. Dovrebbero arrivare in estate.

 

La conferenza stampa da Radio Radicale