Si chiude poco dopo l’ora di pranzo la storia di una banca unica al mondo. Nata ancor prima della scoperta dell’America, nel 1472, e da allora rimasta sempre di proprietà di una piccola, seppur meravigliosa, città della provincia italiana. Da oggi invece il Monte dei Paschi è ufficialmente scalabile. Un’assemblea straordinaria degli azionisti fin troppo tranquilla – questa volta non c’era nemmeno Beppe Grillo a fare un po’ di colore – ha velocemente ratificato quanto era stato già deciso dai soci forti della pur malmessa ditta. In primis il Comune e la Provincia di Siena. Con subito dietro due delle principali istituzioni del paese, il governo e Bankitalia, che nemmeno per un attimo sono stati sfiorati dall’idea di una pur parziale e temporanea nazionalizzazione del terzo gruppo bancario italiano. Travolto dalla crisi finanziaria più che dal malaffare dei suoi vecchi dirigenti. Colpevoli, piuttosto, di aver voluto un Monte sempre più grande, con l’acquisto nel 2007 di Antonveneta, senza calcolarne appieno i possibili effetti collaterali. Puntualmente segnalati – in temi non sospetti – da alcuni piccoli azionisti. Ma che nulla potevano di fronte a un sistema che nominava Giuseppe Mussari “banchiere dell’anno” nel 2008, e poi lo issava alla guida dell’Abi nel 2010. Confermandolo incredibilmente nella carica lo scorso anno, nel 2012.

Ora l’abolizione del tetto del 4% per i soci privati, deciso dall’assemblea degli azionisti del Monte, apre alla possibilità di nuovi soci “forti”. Di nuovi padroni, in teoria provenienti da ogni angolo del pianeta, che potrebbero non avere interesse a mantenere la banca a Siena. Del resto la Fondazione Mps (Comune, Provincia ecc), che fino al 2011 controllava oltre il 50% delle azioni, oggi ha il 33,5% del Monte ma scenderà sotto al 20%, con l’aumento di capitale da un miliardo già approvato nel gennaio scorso. E con un patrimonio ai minimi termini, dopo perdite di 500 milioni complessivi in tre anni e 350 milioni da restituire ad altri istituti di credito.

I conti in rosso della Fondazione, e i Monti Bond in carico alla banca con i loro altissimi tassi di interesse, sono l’ideale viatico al tormentone di questi anni di crisi: non c’è alternativa. Eppure perfino l’amministratore delegato e dg Fabrizio Viola, che con il presidente Alessandro Profumo sta tracciando senza esitazioni la strada futura del Monte dei Paschi, davanti alle insistenze dei cronisti sulle ipotetiche difficoltà nell’avere il definitivo via libera dell’Ue ai Monti Bond, si è un minimo spazientito: “Mps è la prima e ci auguriamo anche l’unica banca italiana che attiva questo processo – ha fatto presente – ma se guardiamo in Europa non è una situazione anomala, perché ci sono almeno una sessantina di casi del genere”.

Quanto a Profumo, di fronte ai piccoli azionisti ribadisce che, se non saranno rimborsati i Monti Bond, la banca sarà nazionalizzata e venduta a pezzi o per intero dallo Stato. Poi sostiene che all’orizzonte non ci sono nuovi azionisti: “Anche perché ancora nessuno è andato in giro a cercarli”. Infine rassicura: “’Faremo il massimo per mantenere l’indipendenza della banca. Potete crederci o no, ma questo è il nostro obiettivo: fare gli interessi di tutti gli azionisti, quindi anche della Fondazione”.

Fuori dall’assemblea, gli unici a protestare restano i bancari della Fisac Cgil, che guardano alle “riorganizzazioni” in corso non solo al Monte ma nell’intero comparto bancario, e hanno già capito da tempo che alla fine a pagare saranno gli anelli più deboli della catena, cioè i lavoratori. Una malinconica chiusura di sipario per quella “storia italiana” ritratta negli oleografici (e costosissimi) spot di Giuseppe Tornatore quando di soldi ce n’erano tanti. Una storia che era ben iniziata nel Medioevo, con una delibera del Consiglio generale della Repubblica che aprì il Monte di Pietà per concedere prestiti alle “’povere o miserabili o bisognose persone”, con un minimo tasso di interesse.