Il colpo alla nuca di Mps è arrivato dalla Consob, che mercoledì ha tolto il divieto di vendite allo scoperto disposto a ottobre, quando i risultati degli stress test della Bce avevano fatto volteggiare nel cielo di Siena gli hedge fund. Pazienti come avvoltoi, i fondi di investimento speculativi hanno atteso, e in tre soli giorni hanno affossato il titolo Mps di quasi il 20%, portandolo al minimo di 0,40 euro per azione. In altre parole il quinto aumento di capitale in sei anni per 2,5 miliardi, deciso per coprire l’ammanco di 2,1 miliardi segnalato dagli stress test, già oggi è superiore alla capitalizzazione della banca.

Di più: alcune indiscrezioni, più o meno pilotate, ipotizzano che la ricapitalizzazione prevista a maggio sarà superiore ai 2,5 miliardi. Riconfermando che il terzo gruppo bancario italiano – per depositi e numero di sportelli – è stato destinato a diventare la preda di un altro gruppo creditizio. Tristissimo, ed evitabile, destino, quello della banca più antica del mondo. Condannata non solo dagli enormi problemi seguiti all’acquisto per 9,3 miliardi cash di Antonveneta, dalla quasi contemporanea crisi finanziaria semiglobale, e dai suoi effetti collaterali nello scenario creditizio del vecchio continente. Uccisa soprattutto dalla scelta suicida di ricorrere al “mercato”, invece di imporre alle autorità nazionali e sovranazionali l’opzione – possibile – di una parziale e temporanea nazionalizzazione. L’unica strada per evitare il lento strangolamento di questi anni.

“Siamo l’unico paese europeo che non è voluto entrare, neanche nell’emergenza, nel capitale delle banche in difficoltà – segnalava due anni fa Vladimiro Giacchè – non si è mai andati al di là di prestiti”. L’economista non dimenticava di ricordare a smemorati e distratti un dato di fatto: “Persino l’insospettabile Regno Unito ha creato una banca pubblica per il credito alle piccole e medie imprese”. Ma questa via d’uscita alla crisi era opposta a quella decisa dai vertici di Rocca Salimbeni, accettata sia pur a denti stretti dalla città, e nei fatti avvallata da Bankitalia, governo (governi: da Monti a Letta per finire con Renzi), e autorità monetarie continentali.

Risultato: di fronte all’ennesimo disastro borsistico, ieri il sindaco senese Bruno Valentini non ha trovato di meglio da dire che questo: “Occorre capire se, oltre all’aumento di capitale, bisogna unire Mps ad un’altra banca. Può essere una banca italiana o straniera. Io preferirei italiana”. Per rinfrescarsi la memoria, il piddino Valentini dovrebbe rileggersi una eloquente intervista rilasciata dall’allora neopresidente del Monte, Alessandro Profumo: “Mi piacerebbe avere un socio finanziario di lungo termine… La nazionalità non è un problema”.

Insieme al suo ad Fabrizio Viola, Profumo ha perseguito il suo dichiarato desiderio. Senza preoccuparsi del fatto che il Monte era orgogliosa proprietà, pubblica, di una intera città. La cui linea di difesa, affidata alla Fondazione in epoca Mansi con il patto di sindacato con i sudamericani di Fintech e Big Pactual, ha resistito per quanto possibile. Mentre ora la stessa Fondazione, passata alla guida di Marcello Clarich, sfoglia la margherita per decidere se accettare o meno l’ennesimo aumento di capitale. Che gli costerebbe, per 2,5 miliardi di ricapitalizzazione, più di 60 milioni per mantenere la quota del 2,5%. Ancor di più se l’aumento fosse più consistente. E con un titolo Mps che appena tre mesi fa valeva un euro, e oggi costa meno della metà.