All’improvviso in Italia la Banca centrale europea non appare più come un arbitro indipendente nelle vicende finanziarie capace di tenere a bada persino i furori teutonici.

Per la prima volta fonti governative e media criticano l’operato della Bce rispetto alla vicenda Monte dei Paschi e più in generale per la condotta rigida assunta nei confronti del sistema bancario nostrano. Nessuno nega le difficoltà del settore, ma si sostiene che i problemi dovevano essere affrontati diversamente. Sul Sole 24 Ore si afferma in modo netto che «un bravo medico deve salvare il malato: se ogni suo paziente viene tramortito dalla medicina o dal dosaggio prescritto, qualcosa dovrà pur significare».

Mps non sarebbe una banca insolvente e la quota di crediti deteriorati doveva e poteva essere affrontata con maggiore riservatezza, non spaventando mercati facili al panico. La Bce è accusata soprattutto di aver cambiato i parametri che si rendevano necessari in base ai risultati negativi dei suoi stress test (cambiamento intervenuto a seguito dell’impossibilità del mercato a racimolare i famigerati 5 miliardi) per condurre la banca senese su lidi più sicuri e di non essere stata disponibile ad allungare i tempi per questo progetto.

Insomma sembra quasi che l’ormai necessario intervento dello Stato sia la risultante di scelte poco attente della Bce. La vittoria del No al referendum poi avrebbe fatto il resto. I fatti di Mps e delle banche italiane in genere vengono letti con un certo strabismo, evitando uno sguardo d’insieme e focalizzando l’attenzione solo sui fattori che piacciono di meno, trovandoli abbastanza incomprensibili. L’intransigenza della Bce ora sembrerebbe simile a quella cui ci hanno abituato i tedeschi, quasi non fosse nel solco delle sue azioni precedenti.

In questi anni la Bce ha allontanato la crisi dei debiti sovrani e dell’euro e ha messo in campo, seppur in ritardo, un piano crescente di interventismo monetario, esemplificato da ultimo dal Quantitative easing, peraltro recentemente protratto. In cambio chiede programmi di controriforma sociale, di cui mai nessuno si lamenta, e progetti di aggiustamento delle strutture produttive e finanziarie. Gli stress test dopo la crisi non sono una novità, già in quelli del 2014 erano emerse criticità per Mps e Carige. Da allora i problemi non solo sono rimasti sul terreno, ma si sono incancreniti. Uno studio apparso su lavoce.info ammette come la crisi di Mps «venga da lontano» e come sia il frutto di una sotto-capitalizzazione che negli anni ha aumentato il proprio rischio insolvenza a fronte di perdite inaspettate. Il tira e molla su regolamentazione e vigilanza dura da tempo, l’Italia dopo aver approvato il bail-in ha scoperto che va rivisto, che comporta problemi per i risparmiatori.

Il sistema bancario europeo appare piuttosto vulnerabile e la Bce per il suo ombrello chiede delle contropartite di riordino interno (leggasi aumento di capitale, ristrutturazioni, licenziamenti). Probabilmente ne chiede di più a paesi come l’Italia che del suo interventismo beneficiano maggiormente, senza dare l’impressione di voler cambiare granché. Ed ecco che arriva l’intervento dello Stato che da un lato appare una scorciatoia nelle pieghe delle regole vigenti in Europa e dall’altro semplicemente un soccorso alle banche, di cui ci si assume i rischi, ma nella prospettiva di un ritorno di profitti privati. Perché se c’è un termine improprio in questa vicenda è quello di nazionalizzazione. Nessuna socializzazione è in gioco, nessun tentativo statale di gestire la terza banca italiana, solo reiterare degli aiuti, prendere tempo. Neppure si prova a cambiare il gruppo dirigente di una banca che da anni si sa essere a rischio. Mentre il medico (la Bce) sbaglia la cura, per ora a salvare le banche ci pensa la sfera pubblica donando sangue gratuitamente.