L’Italia non si colloca ai primi posti nella classifica europea degli interventi, sotto forma di ricapitalizzazioni e garanzie, a favore del settore bancario. Dal 2008 al 2014, stando ai dati forniti dalla Commissione europea, il nostro Paese ha messo sul piatto “soltanto” 102 miliardi di euro di aiuti agli istituti di credito, dei quali solo il 20% sono classificabili come stanziamenti reali (il resto sono garanzie). Cifra molto lontana dai 655 miliardi e dai 550 miliardi, autorizzati nello stesso periodo, rispettivamente, della Germania e dalla Spagna.

Eppure, il nostro sistema bancario non gode di buona salute. Bankitalia ha stimato che a settembre le sofferenze lorde ammontavano ancora a 198 miliardi di euro (85 miliardi netti, ovvero al netto della loro svalutazione), alle quali si deve aggiungere un ammontare quasi equivalente di incagli, crediti di difficile esigibilità, sebbene solo in via temporanea. Come si spiega questa discrasia? Principalmente col fatto che, allo scoppio della crisi dei subprime, le banche italiane erano meno esposte sui prodotti ad alto rischio made in Usa. Ora, però, i nodi di una lunga gestione “politica” e clientelare del credito sono venuti al pettine. E l’Italia viene addirittura considerata come un potenziale focolaio di infezione per il sistema finanziario europeo.

VENIAMO AL CASO MPS. L’istituto senese, in questi giorni, sta provando ad aumentare il proprio capitale, chiedendo a 40 mila piccoli investitori di scambiare le proprie obbligazioni subordinate con azioni della stessa banca (tecnicamente un’operazione di swap), poi affidandosi direttamente al mercato. Un’operazione da 5 miliardi di euro, con deadline fissata al prossimo 22 dicembre. Nel caso l’operazione riuscisse, questi soldi servirebbero a coprire la perdita derivante dalla vendita dei crediti deteriorati (Npl) ad un prezzo più basso di quello iscritto in bilancio.

Nel frattempo, il governo si mantiene in allerta, fissando per lo stesso giorno un Consiglio dei Ministri. Qualora il tentativo di ricapitalizzazione privata non andasse a buon fine, Palazzo Chigi sarebbe pronto ad aprire il portafoglio dello Stato. A quanto ammonterebbe il finanziamento pubblico? Si parla di 15 miliardi di euro, di cui beneficerebbero, però, anche altre banche. Da dove proverrebbero questi soldi? Bè, su questo punto le certezze sono di meno. Circolano varie ipotesi, tra cui una supertassa. Ma anche l’abbraccio – finora sempre esorcizzato – con la Troika, che in pratica significherebbe richiedere un prestito al Fondo Salva Stati (Esm), con tutto quello che ne conseguirebbe, anche in termini psicologici.

UNA COSA È CERTA: l’operazione, comunque andrà a strutturarsi, non costituirà un’eccezione, ma la regola di un sistema nel quale gli Stati, quindi i cittadini, sono diventati i soccorritori di ultima istanza delle banche, che, a loro volta, non rispondono mai ai cittadini e agli Stati dei loro fallimenti, spesse volte fraudolenti.

Dallo scoppio della crisi fino a oggi, in Europa sono stati autorizzati aiuti di Stato per circa 5 mila miliardi di euro, di cui il 40%, circa 2 mila miliardi, effettivamente utilizzati. Soldi, ai quali devono essere aggiunti quelli dei piani di rifinanziamento a lungo termine della Bce (Ltro e T-ltro), prestiti a tassi prossimi allo zero, con i quali le banche hanno fatto shopping di titoli di Stato con rendimenti fino a cinque volte superiori.

Poi è arrivato il Quantitative easing, che ad alzare l’asticella dell’inflazione manco a parlarne, ma in compenso ha garantito alle banche la necessaria liquidità per rimborsare i prestiti agevolati ricevuti in precedenza. Un fiume di denaro che, sebbene abbia allentato la tensione sui titoli di Stato, non ha mai (in verità, come avrebbe potuto?) incrociato le esigenze dell’economia reale e dei cittadini. Ma Draghi ha annunciato che il programma andrà avanti per tutto il 2017, ben oltre la scadenza di marzo, ancorché ridotto di 20 miliardi nel suo volume mensile. Con un’avvertenza ai leader europei, ribadita anche durante l’ultimo Consiglio europeo: occhio ai bilanci pubblici. Che significa? Che i governi – sarebbe meglio dire i cittadini – dovranno continuare a stringere la cinghia. Come a dire: i soldi ci sono, ma non per tutti!

QUALCUNO potrebbe osservare: a parte gli effetti deleteri che il fallimento di una grande banca (too big to fail, ricordate?) avrebbe sull’economia nel suo complesso, non è giusto tutelare il risparmio dei cittadini? Obiezioni legittime. Nondimeno, se da un lato sarebbe giunto il momento di rimediare ai disastri causati dalla deregulation del sistema finanziario, a nessuno viene in mente che la gran parte dei cittadini è afflitta da problemi economici, talvolta di sopravvivenza, e di obbligazioni subordinate non ha mai sentito parlare in vita sua? Eppure, solo due settimane fa, a gridare questo concetto sono stati 19 milioni di italiani.