Ogni epoca inventa il proprio paradiso. Ma da tre millenni per gli europei è l’Oriente. Che è però lo specchio di aspirazioni diverse, vi si proiettano, rovesciati in virtù, i vizi dell’Occidente. Così nell’ Europa assolutistica, sanfedista e intollerante del ’ 700 l’ Oriente è il paradiso della tolleranza: da Lessing a Goethe, da Goldoni a Voltaire e a Montesquieu turchi, persiani, arabi sono giusti, tolleranti, gli europei egoisti e intolleranti. Com’è successo che nel XXI secolo sia invece diventato l’inferno, il nemico da eliminare? Mozart dedica a quest’Oriente illuministico due opere: Il ratto dal serraglio e Il flauto magico. E due torsi, incompiuti, Thamos, re d’Egitto e Zaìde, scritta prima del Ratto, tra il 1778 e il 1779. Ce ne restano 15 numeri, ma il libretto, di Johann Andreas Schachtner, è andato perduto.

NEL 1981, a Batignano, per quel meraviglioso festival teatrale e musicale ideato dall’inglese Adam Pollack, Graham Vick e Italo Calvino inventarono un work in progress, un’azione musicale aperta: l’autore del Castello dei destini incrociati, uno dei romanzi più avvincenti del XX secolo, riapre il mazzo dei tarocchi, che diventano qui tessere di un mosaico, e immagina possibili vicende di rapimenti, schiavitù, liberazione e amori, nel cui collage i lapislazzuli sono i numeri musicali di Mozart.
Perché Mozart abbandona il progetto? Per la morte di Maria Teresa? O perché nessun teatro lo ritenesse rappresentabile? O più semplicemente, com’è probabile, perché il libretto non gli piaceva? Da quel che se ne capisce, i personaggi non hanno lo spessore che Mozart cerca in un personaggio teatrale. La musica sì. Almeno cinque o sei numeri sono tra le pagine più alte che Mozart abbia scritto. La complessità che manca al testo c’è nella musica. Le due, sublimi, arie di Zaíde (una assai espressiva Chen Reiss), l’aria di Gomaz (splendido, come sempre, Juan Francisco Gatell) e quelle di Soliman (un tormentato Paul Nilon) e Allazim (impagabile, stupefacente Markus Werba).

PROPRIO ALLA FRAGILITÀ della drammaturgia supplisce il testo, bellissimo, di Italo Calvino: la pluralità delle vicende immaginate cattura lo spettatore: lo schiavo Gomaz è innamorato della favorita del sultano Zaide e il geloso Allazim, un cristiano rinnegato, anch’egli innamorato della concubina, vuole eliminarlo, Soliman, alla fine libera tutti, riconoscendo in Allazim il suo salvatore da un attacco di pirati; ma potrebbe essere invece che Allazim si sia innamorato dello schiavo fiammingo Gomaz, e voglia eliminare Zaide, per goderselo tutto per sé, ma che alla fine si scopra l’intrigo e che il salvatore del sultano sia Gomaz, e allora, come va a finire? Nell’ottobre scorso lo spettacolo, allestito, come nel 1981 a Batignano, da Graham Vick, andò in scena al Teatro dell’opera di Roma con una sparutissimo pubblico, e passò quasi inosservato, per le restrizioni del covid, ma fu registrato perché fosse trasmesso da Rai5, che mercoledì scorso lo ha mandato in onda. Lo spettatore televisivo avrà così potuto godere della visione di un interessante esperimento teatrale. Denudato della presenza del pubblico ciò che accade sulla scena acquista un rilievo quasi paradigmatico, come se il provvisorio diventasse la forma stessa del fare teatro. Remo Girone recita il testo di Calvino, con molta calma, quasi spiegasse una messa in scena. E di fatti non è uno spettacolo compiuto che si vede, ma uno spettacolo che via via si monta davanti agli occhi.

UN CASSONE GIALLO dell’immondizia si fa base di una pila di secchi che sono il fusto di una palma. Gli attori indossano via via gli abiti di scena, un’oriente teatrale che è l’inconscio dello spettatore occidentale. Figuranti sulla scena con gli abiti di oggi.
Daniele Gatti, alla testa dell’orchestra, dà vita musicale intensa, commossa, a questa fantasia di un sogno teatrale che potrebbe essere anche un incubo. Il nostro incubo di oggi. Il virus ne è la spia. Da rivedere su Raiplay, chi può.