«La vita di Stéphane sarebbe potuta essere anche la mia», dice Thierry De Peretti, il regista di Una vita violenta, suo secondo lungometraggio ambientato in Corsica, presentato alla Semaine de la Critique di Cannes 2018, ora nelle sale. Nel suo esordio Apache aveva avvicinato lo spettatore straniero ai luoghi forse da lui più conosciuti, quelli delle vacanze, le coste d’approdo dei turisti. Mostrava la differenza di classe dove i figli dei ricchi sono comunità a parte mentre il figlio del custode nordafricano fa da apripista ai suoi amici per impadronirsi di qualche oggetto di lusso e degli ambiti fucili.

Apaches come si chiamavano i blouson noirs, gli hooligans. Terra sconosciuta la Corsica, avvolta nel mistero e soprattutto lo è la sua storia contemporanea con le dinamiche che Una vita difficile svela a partire dagli strati più deboli della militanza, quel Fronte di liberazione della Corsica con le sue deviazioni e l’intervento dei poteri forti, le infiltrazioni di assassini della mafia veicolate dallo stato.

ANCHE IL REGISTA, nato in Corsica, avrebbe potuto avere lo stesso destino del protagonista (Jean Michelangeli), famiglia piccolo borghese, amicizie collegate al movimento, poi l’adesione ideale, inevitabile preda del meccanismo di omicidi e vendette. La frequentazione disimpegnata del ragazzo con i giovani coetanei lo porta a dimostrare il suo coraggio improvvisandosi corriere di una sacca piena di armi. In carcere dove finisce subito dopo senza neanche sapere come, riceve un processo di politicizzazione, di radicalizzazione da parte di alcuni dirigenti del movimento già finiti dentro da un pezzo. La missione è organizzare rivolte contro lo stato colonizzatore. Tutto il film si concentra con forza frenetica a mostrare l’inutile impegno della cellula che si forma separata e senza protezione, ad affrontare obiettivi che portano al disastro, all’abbandono dell’isola e al drammatico ritorno.

IL PERIODO che si racconta non è quello «eroico» del nazionalismo, con i conflitti arrivati al culmine nel 1976, ma la fase discendente, dopo che negli anni ’90 il Fronte si divise in due originando faide sanguinose. Il film inizia a Parigi nel 2001: qui Stéphane è arrivato per sottrarsi alla vendetta. L’amica parigina annuncia che sta per andare in vacanza in Corsica. «Bastia non è più come una volta» commenta lui e dietro a questa frase si apre inaspettato il dramma sempre più complesso, una svolta del racconto tipica dello stile mai scontato del regista. Una vita violenta era anche il titolo del film di Paolo Heusch e Brunello Rondi (1962) tratto dal romanzo di Pasolini e non è casuale.

Quando Thierry De Peretti arrivò a Roma a presentare il suo esordio, ricordiamo che volle recarsi a Ostia all’Idroscalo: se il poeta è uno dei suoi punti di riferimento si può cogliere quella derivazione in un certo umanesimo del racconto, in un sistema di lavoro di gruppo che nasce come laboratorio teatrale fin dai primi momenti dell’ideazione del film, un anno e mezzo di lavoro appena inizia a scrivere la sceneggiatura, con un casting di non professionisti che affrontano una preparazione fisica in cui si danza, si leggono poesie e si inizia a lavorare anche se non si sa se il film si farà. Proprio come negli Appunti per un’Orestiade africana, ricorda il regista: «Lì c’è già questo metodo aperto su un film possibile, il rapporto gioioso che Pasolini aveva con i suoi attori».