Un flusso orizzontale di gocce d’acqua investe sullo schermo il primo piano di un uomo che avanza in senso contrario, le mani tese in un abbraccio vuoto. Nella scena buia una seconda figura in carne e ossa appare tra il luccichio mosso di uno sciabordio d’onda, un suono che non smette, una riva da lasciare, una riva da trovare. «Vorrei nuotare come nuotano i delfini. Io sarò re e tu sarai la mia regina». Voce di un bimbo che si intreccia lentamente a Heroes di David Bowie, eseguita al pianoforte da un canto al femminile.

SONO QUESTE le prime immagini, parole e suoni di Franchir la nuit (Attraversare la notte), progetto e non certo solo spettacolo del coreografo francese Rachid Ouramdane, in cui ha creduto, e a ragione, il festival Bolzano Danza, diretto da Emanuele Masi che lo ha presentato in prima nazionale al Teatro Comunale. Un percorso di integrazione che coinvolge oltre a cinque danzatori di Ouramdane bambini e adolescenti del territorio, tra cui immigrati di seconda generazione, rifugiati, minori non accompagnati.

Un percorso delicatissimo che ha al suo centro storie di migrazione viste attraverso lo sguardo dell’infanzia. La scena è trasformata in una grande piscina, un mare notturno di onde che si rincorrono e che non può non portare alla mente i tanti naufragi, viaggi, tragedie, soccorsi bloccati di questi nostri tempi bui. Il progetto, coordinato a Bolzano da Rachid con la Community Dance Academy, è nato a Grenoble l’anno scorso dove Ouramdane dirige insieme a Yoann Bourgeois (ospite del festival con l’ipnotico Ophelia) il CCN2 (Centre Chorégraphique National). 

«A GRENOBLE per Franchir la nuit abbiamo lavorato con ragazzi del territorio per otto, nove mesi – ci racconta Rachid -. Collaboriamo con un centro che si occupa della protezione dei diritti dell’infanzia, ci vuole una grande attenzione, non si tratta solo di dar loro da mangiare, di assisterli sotto il profilo medico, dobbiamo chiederci come renderli parte della comunità, molto sono fragili, chiusi nella loro identità di rifugiati. Non dobbiamo mai dimenticare che stiamo lavorando con dei bambini. Quando riprendiamo Franchir la nuit non iniziamo mai le prove parlando del tema dello spettacolo: i ragazzi si chiuderebbero. Partiamo sempre dal movimento, dalla danza che già per molti è qualcosa di strano. Li invitiamo a partecipare, a lavorare su piccoli gesti, toccarsi, darsi la mano, aiutarsi, prendersi in braccio. Poi vedono il video dello spettacolo con altri bambini che danzano, riconoscono i movimenti, “sì, sono quelli che abbiamo imparato anche noi nello studio, li possiamo fare”, iniziano le domande, alcuni raccontano. Ragazzi fuggiti a un destino di combattente in Siria, giovani scappati su barche affondate, compagni salvati, portati in spalla, storie di abusi».

SULLA SCENA è sempre notte, i danzatori di Rachid e i minori scivolano nell’acqua, si tengono per mano, in braccio, danzano in cerchio, un bimbo, solo, in centro, gioca con i flutti e sembra un piccolo dio delle acque, magnifico nella sua fragilità. Franchir la nuit (video di Mehdi Meddaci, al pianoforte Deborah Lennie-Bisson), ha una sua bellezza visiva e musicale: «non è un documentario sui bambini coinvolti – prosegue Rachid -, è un progetto fatto con questi minori. Lo spettacolo ha una dimensione estetica, in cui i bambini si muovono con quella dignità, nobiltà che è loro e che hanno diritto di mostrare. L’incontro, i racconti, le scelte di partecipare a una o all’altra scena, il lavoro così delicato e diverso di città in città, è ciò che conta. Lo spettacolo è solo la punta dell’iceberg, una struttura che li protegge. Ma sanno bene che quello che fanno non ha nulla di naif, che per alcuni è anche la loro storia, però è come se dicessero “ho quindici anni e ho la forza di portarti con bellezza dentro queste immagini”».

Una attraversata nella notte dove tuttavia, come dice Bob Dylan nell’altro hit citato, Knocking on Heaven’s Door, «tutto diventa troppo buio per vedere». E si esce da teatro con nelle orecchie il rumore imbarazzante, inesorabile delle onde, e il motivo di una ninna nanna berbera cantata nello spettacolo, simbolo di un’infanzia che tutti dovrebbero poter avere.