In ogni libro si possono trovare le impronte che l’autore lascia in alcuni punti strategici della sua opera; oggetti e parole, dialoghi e allusioni, comprensibili a vari livelli, traiettorie, interpretazioni. Alcune di queste tracce sono proprie dell’autore, si perdono nella totalità dell’opera e in mezzo ai riferimenti che il lettore sarà capace di creare partendo dalla sua esperienza di lettura.
André Breton, ad esempio, per dare un indizio su chi fosse nella realtà Nadja, arrivò a usare Trotzky per indicare attraverso il nome maschile quello della donna che aveva ispirato la protagonista.

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Il collettivo di scrittori Wu Ming nell’ultima opera L’Invisibile ovunque (Einaudi, pp. 216, 17,50 euro) fa esattamente questo: su un’impalcatura che miscela stili, vicende e personaggi connessi alla prima guerra mondiale cospargono il testo di citazioni, allusioni e riferimenti letterari di ogni genere. Ne esce un libro di difficile classificazione, con molteplici chiavi di lettura. Alcuni di questi richiami sono voluti nella loro immediatezza, altri sono più oscuri nel procedere, finendo per «mischiare» questi elementi quasi a costituire un metodo di scrittura, spingendo i quattro «movimenti» distinti che compongono il libro verso una direzione, mantenendo tuttavia un certo grado di connessione tra le storie, attraverso rinvii tra le diverse vicende raccontate.
Non è il «dunque» ma il «come», come scrive Breton quando spiega il surrealismo.

E il «come» dipende necessariamente dal «cosa»: sullo sfondo delle quattro storie, frammenti di un’unica grande Storia, c’è la prima guerra mondiale celebrata in modo eroico e retorico da tutta la stampa nostrana. Ne L’Invisibile Ovunque (dedicato al giornalista italiano recentemente scomparso Luca Rastello) gli autori di Q, Manituana e L’Armata dei sonnambuli decidono di «non celebrarla», sottolineando l’ipocrita delinquenza del conflitto e celebrando – invece – le diverse volontà di sottrazione dall’ottusa e drammatica carneficina, quasi fino a farla «scomparire».
Nel volume non si fanno sconti a tattiche suicide, all’ipocrisia dei generali e di una nazione che poi millanterà eroismi di ogni specie. «La demotivazione montava, l’assurdità della strategia e della tattica messe in atto dallo Stato maggiore era ormai consapevolezza comune. La sensazione che andava prendendo piede tra la truppa era che si stesse morendo per niente. Per tutta risposta il generalissimo Cadorna aveva inasprito le misure contro i «codardi».

E ancora: «Quella che l’Italia vendette agli storici militari come “la Battaglia di Vittorio Veneto” fu più che altro l’inseguimento di un nemico in ritirata, spossato e sbandato, quando non addirittura già ammutinato». Nel primo episodio del libro i Wu Ming decidono di sistemarsi all’interno di una narrazione classica, rapida e incisiva, nel solco dei racconti di guerra, per descrivere l’arruolamento di un giovane italiano tra le fila degli Arditi (e si sottolinea un lessico che sarà poi ripreso e fagocitato durante il fascismo, perché tutto parte da lì, dalla prima guerra mondiale).

Nel secondo episodio gli autori si concentrano sulla follia. È un gioco riuscito che indaga quell’equilibrio sottile tra pazzia per evitare la guerra e la pazzia di chi ci crede e di chi la fa. In questo secondo movimento, la scrittura prende distanza dai canoni del romanzo tradizionale, mischiando piani e tempi narrativi, con inserti metaforici, lettere e «letteratura» costituita da rapporti psichiatrici.

Il terzo movimento continua questa sbandata, «un controcanto al Nadja di Breton», come l’hanno definito gli autori sul loro sito, condotta con surrealismo e riferimenti e rimandi continui tra storia e arte. I Wu Ming, presentando il libro, hanno evocato richiami a Roberto Bolaño. Una presenza che si intravede nella capacità di «mischiare» le storie, concentrandosi su alcune di esse, per lasciarle poi cadere a indicare la frammentarietà delle vicende. Ma c’è soprattutto il richiamo alla novità letteraria che è stata Bolaño, come scrive su Nazione Indiana Helena Janeczek: «Nella composizione del buco nero, l’istanza del romanzesco deve fallire, la realtà continuare a superare la fantasia del verosimile: la realtà di un male irriducibile perché concreto, anzi reificato».

Infine ne L’Invisibile Ovunque arriva il quarto movimento, saggio in forma romanzata che conclude il libro e svela le diverse chiavi di lettura per il volume. È il capitolo che si oppone alle «brillanti cronache» che i media mainstream tentano di fare passare, sviluppando un ragionamento sul mimetismo – anche culturale – che ci si augura venga ampiamente ripreso. Come rendersi invisibili, ma allo stesso tempo in grado di modificare la realtà che ci si presenta?

È il cruccio di una stramba divisione dell’esercito francese, poi trapiantata in Italia. «In fondo – si legge – stava proponendo ai militari di non scommettere più sullo slancio eroico, sulla gloriosa morte in battaglia, sul mostrarsi impavidi in faccia al nemico. Mimetizzarsi non è come nascondersi?» Mimetizzarsi non significa però nascondersi, e non costituisce neanche l’aspetto più importante, chiedersi se equivalga a negarsi o meno.

L’aspetto importante sembra proprio il «come», per fare cosa, per dire cosa. Nel caso del racconto dei Wu Ming, il mimetismo militare avrebbe dovuto proteggere i soldati, anziché i tank, le macchine. Ma gli ideatori scoprono ben presto che «non era la carne da cannone che si doveva risparmiare, ma il cannone». Ed eccoci alla possibilità del mimetismo, per non farsi «beccare» ma soprattutto per cambiare gli esiti di una battaglia, anche culturale.