Quella di Jamil Hammouda è una vita d’inferno. Con le gambe amputate, passa quasi tutto il giorno su una sedia a rotelle e ha rare occasioni di lasciare casa a Beit Lahiya, nel nord della Striscia di Gaza. «Qui intorno è pieno di buche, non c’è la strada, solo sabbia e rovine. Con la sedia a rotelle non posso andare in giro. Non possediamo un’auto, siamo poveri. Vivo con i pochi soldi della mia pensione». Sua moglie segue la conversazione in silenzio, sul suo volto ci sono i segni di una esistenza di miseria e privazioni. «Eppure la povertà non è il primo problema della nostra famiglia» dice Jamil «ci tiene in pena mio figlio Mounis, in prigione negli Stati Uniti da quasi due anni. Assieme a un altro palestinese di Gaza ha provato, dal Messico, ad entrare in Arizona per chiedere asilo politico ma gli americani l’hanno sbattuto in cella. Sappiamo poco o nulla di lui, può usare pochissimo il telefono e solo per una manciata di minuti, quanto basta per dirci che sta bene in salute. Alcuni palestinesi che vivono in Arizona da tempo provano ad aiutarlo senza risultato». Nella stanza scende un silenzio cupo. Gli occhi di Jamil e di sua moglie si incrociano alla ricerca di conforto reciproco.

La vicenda di Mounis Hammouda e del suo amico Hisham Shaban Ghalia – entrambi hanno poco più di 30 anni – è poco nota. Tra gli stessi palestinesi ne se parla poco. Eppure spiega bene la condizione di Gaza, sotto blocco da 10 anni, teatro di tre grandi offensive militari israeliane nel 2008, 2012 e nel 2014 (la più distruttiva) e di altre “minori”, con livelli di disoccupazione tra i più alti al mondo, senza riserve di acqua potabile. Le Nazioni Unite dicono che Gaza sarà «invivibile» nel 2020. Per i suoi abitanti lo è già da decenni. Mounis e Hisham sono stati tra i primi giovani di Gaza che, in questi ultimi anni, hanno lasciato la loro terra per provare a costruirsi un futuro altrove. Alcuni hanno approfittato di un visto di studio. Altri sono andati sui barconi della morte salpati dall’Egitto verso l’Europa pagando talvolta la vita come tanti migranti.

Il sogno di Mounis e Hisham è svanito dopo un viaggio di 7 mila miglia, attraverso 8 Paesi, sulle barriere che separano il Messico dagli Stati Uniti. Il loro “sogno americano” ora è una cella del centro di detenzione di Florence, in Arizona. Le autorità americane non li lasciano entrare e neppure tornare indietro. «Il loro passaporto statunitense non conta nulla – ci spiega Jamil Hammouda – per gli Stati Uniti la Palestina non esiste e non possono rimandare nella loro terra Mounis e il suo amico. Da oltre 500 giorni sono in cella, in attesa di una decisione dei giudici, che forse arriverà questo mese». E non sono gli unici migranti “insoliti”, rispetto ai messicani, che bussano alle porte meridionali dell’America. Il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale ha riferito che nelle carceri statunitensi c’erano lo scorso settembre 1.387 cittadini di 22 Paesi dell’Africa e del Medio Oriente privi di documenti riconosciuti e validi.

I due giovani palestinesi avevano lasciato Gaza in tempi diversi. Hisham nel 2010 e Mounis nel 2011, entrambi grazie a visti di studio turchi. Si sono conosciuti per caso in un campo per rifugiati a Cipro, dove si erano trasferiti sperando di avere accesso più facile all’Europa. Invece in quel campo ci sono rimasti per tre anni e mezzo, guadagnandosi da vivere con lavori occasionali. In quel lungo periodo trascorso nell’isola cominciano a maturare il desiderio di andare negli Usa ma non hanno soldi. Il “colpo di fortuna” è la decisione delle autorità cipriote di liberarsi di quei due scomodi ospiti. Mounis e Hisham chiedono di essere espulsi verso il Venezuela, uno dei rari Paesi dove i palestinesi possono entrare senza chiedere in anticipo il visto. Cipro li accontenta. A Caracas i due giovani restano solo sette giorni. Con pochi soldi in tasca partono per il Nicaragua, altro Paese aperto ai palestinesi, dove si adattano a fare qualsiasi lavoro. Qualcuno li convince che le Nazioni Unite li avrebbero aiutati ma dopo sei duri mesi nelle strade di Managua, Mounis e Hisham passando il confine con l’Honduras, quindi vanno in Guatemala, infine in Messico dove sono incarcerati per 24 giorni per immigrazione clandestina. Liberati si procurano un passaggio in autocarro verso il confine con gli Usa, come fanno tanti messicani. Fermati dalle autorità di frontiera chiedono asilo politico ma se sei palestinese gli americani non te lo concedono, semplicemente perchè non ritengono il blocco di Gaza attuato dagli alleati israeliani, le sue pesanti conseguenze, le guerre, i bombardamenti e le distruzioni un motivo valido per garantire protezione a un palestinese. Il passaporto della Palestina da quelle parti non vale nulla, è solo un pezzo di carta. Mounis e Hisham da quasi due anni attendono di conoscere la loro sorte. Il loro sogno di una vita migliore è svanito davanti alla Idomeni americana.