Nella sua grande opera di colonizzazione del linguaggio, il capitalismo ha avocato a sé la nozione di creatività perché partecipasse alla propria interminabile crescita. Partendo da questa considerazione, Oli Mould nel suo saggio Against Creativity (Verso, pp. 240, sterline 14.99) muove una denuncia contro la deriva semantica di un concetto altrimenti prezioso. Mould intende la creatività come un «potere» nel quale cultura, azione e desiderio si fondono per produrre dal nulla qualcosa di nuovo; eppure, nell’accezione neoliberista il termine designa soprattutto la capacità di concepire qualcosa che una volta immesso sul mercato generi profitto. In cinque svelti capitoli di taglio sociologico più che storico o filosofico, Mould illustra il rapporto ideologicamente inquinato tra l’idea di creatività e le questioni del lavoro, della disabilità, della politica, della tecnologia e dell’urbanistica, segnalando di volta in volta gli artifici retorici del discorso egemone.
Una perenne competizione
Mould esorta il lettore a prendere coscienza e quindi distanza dalle forme istituzionalizzate di discriminazione razzista, sessista, abilista (nei confronti di persone diversamente abili) e in generale dall’egoismo che la mistica del lavoro creativo avvalora. L’enfasi sul talento individuale offusca infatti la natura sociale e collettiva dei processi creativi, e sostiene l’immagine di una società atomizzata, composta da tanti individui tra loro in perenne competizione. In questo senso, la creatività serve a giustificare una situazione di precarietà e rischio crescenti, e a spacciare per naturali le condizioni avvilenti del lavoro cognitivo, perché addossa sempre la responsabilità di ogni frustrazione che il lavoratore può patire alla sua insufficienza di attitudine o dedizione. Inoltre, favorendo il narcisismo a scapito della coscienza di classe, il culto del talento creativo previene la formazione di solidali fronti di opposizione. «Certo, siamo tutti creativi, ma solo quelli che “ce l’hanno fatta” (i privilegiati) traggono vantaggi da tale creatività. Eppure le loro creazioni non sono che modi diversi di perpetuare la divisione».
Tutto questo è facilitato dall’azione pervasiva delle tecnologie digitali, ovvero da quella che viene definita «algocrazia»: un regime retto da codici e algoritmi, in cui l’individuo resta isolato in una confortante «bolla di filtraggio», all’oscuro di come e perché vengono prese le decisioni che lo riguardano.
Secondo Mould, creatività è anche un sinonimo per economizzazione della cultura. Il mantra del lavoro creativo aiuta i governi neoliberali a imporre politiche di austerità, spingendo interi settori della popolazione civile a rendere di più con meno risorse. I tagli ai fondi costringono musei, biblioteche e altri enti culturali a reinventarsi; e questi, nella migliore delle ipotesi, sperimentano modelli di finanziamento «dal basso», ma più spesso adottano logiche imprenditoriali (promozione di eventi, programmazione rivolta al turismo), snaturandosi, oppure si alleano con investitori privati o grandi aziende di discutibile etica, come nella controversa sponsorizzazione della BP alla Tate. «In tutto il mondo, i programmi di austerità obbligano i cittadini a essere più “creativi”, ma così facendo imprimono più a fondo nel tessuto sociale l’ideologia neoliberista».
Mould, riprendendo diversi spunti da Il nuovo spirito del Capitalismo di Luc Boltanski ed Ève Chiappello, si mostra molto preoccupato dalla possibilità che intellettuali e artisti siano loro malgrado complici del capitalismo. È evidente, infatti, che i knowledge worker e gli artisti sono particolarmente esposti agli effetti degradanti della creatività corporate. D’altronde l’arte è stata e continua a essere un organo vitale nello sviluppo del capitalismo, con il quale intrattiene da sempre una relazione profonda e assai più ambigua di quanto Mould non sembri credere. Nel secondo Novecento l’arte ha promesso emancipazione a chiunque avesse la voglia e l’energia per esprimere il proprio potenziale interiore. I mercati hanno subito recepito questo messaggio virtualmente destabilizzante e l’hanno fatto loro, rovesciandone il segno; così non solo il dissenso è stato convertito in terreno fertile da cui estrarre profitto, ma la creatività è diventata un modello produttivo.
L’ultimo capitolo del libro affronta il tema della «città creativa», a cui Mould aveva già dedicato il suo precedente saggio (Urban Subversion and the Creative City, 2015). Qui l’autore trasla a livello di spazio pubblico l’analisi sui problemi di discriminazione, marginalizzazione e isolamento sociale, e guarda nello specifico a casi di gentrificazione condotti attraverso tattiche di artwashing, cioè di camuffamento delle finalità speculative tramite pratiche e narrazioni artistiche, perfino a esplicito carattere anti-gentrificazione. Del resto, artwashing è un termine nuovo per indicare un’inveterata funzione dell’arte, quale dolce strumento di più o meno occulta persuasione, utile a raccogliere consensi e intenerire gli animi.
Un generico appello all’utopia
Alle nequizie della creatività post-ideologica, asociale e apolitica, Mould contrappone una creatività «vera», figlia di cooperazione e condivisione, che si sottrae alla mercificazione e opera a beneficio della comunità, con una chiara vocazione anticapitalistica. Sebbene incoraggiante, l’ipotesi di una creatività migliore perché estranea ai capricci del mercato appare purtroppo abbastanza ingenua. E rispetto alla complessità della sfida che tanto bene descrive, Mould fatica a proporre soluzioni convincenti, a parte un generico appello all’utopia, il sorteggio come alternativa democratica alle elezioni, e alcune goliardiche manifestazioni di protesta che, si spera, l’industria creativa non avrà lo stomaco di cooptare. Ma nonostante qualche incoerenza e semplicismo, Against Creativity rimane un apprezzabile contributo alla lotta intorno al linguaggio, non veramente contro la creatività bensì contro i dispositivi semiotici dello sfruttamento e del controllo.