«Una sollecitazione a continuare a muoversi, soli o in branco»: in questa frase è racchiuso l’attuale spirito dei Motus, gruppo di ricerca performativa e teatrale riminese con un percorso trentennale alle spalle. I progetti portati avanti da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande hanno sempre trovato il modo di rilanciarsi in questi tempi pandemici, senza lasciare per strada un centimetro sul terreno della qualità artistica e dell’ispirazione comunitaria. Lo scorso luglio lo storico festival di Santarcangelo, che continuerà sotto la loro direzione artistica fino al prossimo anno, ha rappresentato un momento di forte condivisione in una rivisitazione contemporanea del ruolo politico e sociale del teatro. Merito dell’attenzione per le attuali correnti di studio più stimolanti tra filosofia queer e teoria critica, ma anche per altre forme artistiche come il cinema e la musica, infatti come sottolinea Nicolò «con il pubblico che ci segue c’è questo travaso e la mescolanza dei linguaggi permette di avvicinare persone che altrimenti non verrebbero a vedere uno spettacolo di teatro tradizionale».
Per dicembre era prevista una vera e propria edizione invernale del festival, chiamata «Winter is coming», dedicata a gruppi e compagnie poco inserite nei circuiti ufficiali. Parallelamente i Motus stanno lavorando al loro prossimo spettacolo intitolato Tutto Brucia e ispirato alla tragedia di Euripide Le Troiane nella riscrittura di Jean-Paul Sartre. Al momento il debutto è previsto per marzo 2021 al Teatro India di Roma e vedrà protagonista la performer Silvia Calderoni, in una collaborazione che dura ormai da quindici anni.

L’inizio di «Winter is coming» era previsto per il 3 dicembre. Come avete deciso di portare avanti le attività?
Daniela Nicolò: Ci tenevamo moltissimo perché abbiamo dato vita a un ensemble di gruppi autonomi, indipendenti e precari, giovani ma non solo. Ancora non abbiamo preso una decisione definitiva ma la situazione è molto complessa. Anche l’estate scorsa diverse compagnie non erano riuscite a partecipare, in quel caso però il festival era strutturato intorno a realtà più solide. Stavolta volevamo dare sostegno e visibilità a chi non ha alcun tipo di supporto, a compagnie ancora non riconosciute dal ministero, tenendo conto che dall’inizio della pandemia molti di questi artisti hanno ottenuto solamente il bonus da 600€. Si trattava quindi anche di sollevare una questione politica sui meccanismi di produzione in Italia. Abbiamo aperto dei canali di confronto virtuale tra le compagnie, noi Motus ci siamo un po’ fatti da parte anche per responsabilizzare gli artisti e scegliere insieme in quale modalità reinventare in festival.
Enrico Casagrande: Non vogliamo semplicemente trasferire gli spettacoli online, si pensa ad un fuori formato di 24 o 48 ore continue, ma c’è anche chi vorrebbe una resistenza improduttiva. Si è creato un confronto molto interessante. Cercheremo di non perdere questo entusiasmo, di proporre comunque qualcosa di potente e di rimanere vicini agli artisti per continuare un percorso comune. Nonostante non siamo stati riconosciuti come un centro di residenza e quindi non abbiamo dei finanziamenti dedicati, a questi gruppi abbiamo proposto delle residenze artistiche per sviluppare i propri progetti.

Alcuni di questi gruppi vengono dal progetto «A school with a view», una rete internazionale che avete creato insieme a diverse istituzioni formative. È importante per voi il rapporto con le giovani generazioni?
EC: La relazione intergenerazionale non si è mai interrotta, per noi è una grande forza. È una forma di arricchimento, un «refresh» dell’immaginario e delle problematicità. In questo confronto, che viene molto apprezzato anche dall’altra parte, non ci siamo mai presentati come maestri. Non dimenticandoci della nostra età, ci siamo sempre posti alla pari e in un dialogo orizzontale.
DN: Con i ragazzi de La Manufacture di Losanna, una scuola molto particolare dove ogni classe lavora su un progetto da portare a termine, abbiamo scelto non a caso di approfondire il post-punk e il principio del do it yourself nello spettacolo Rip it up and start again. Quello che proviamo sempre a comunicare a questi giovani è di non fare l’imitazione dei Motus ma di cercare la propria strada nella massima autonomia. Bisogna distaccarsi dai maestri e cercare un proprio linguaggio. Quando noi abbiamo iniziato non c’erano premi e non c’erano residenze, supporti che sono positivi da un lato ma rischiosi dall’altro, perché c’è sempre il pericolo che ti ingabbino in un formato o in un linguaggio prestabilito. La situazione è mutata ma speriamo non sia mutato lo spirito della rottura rispetto ai canoni affermati. In Italia ci sono pochi spazi di vera libertà, rispetto al passato mancano anche i centri sociali interessati alla ricerca teatrale, i luoghi sono molto connotati e così guardando dei giovani artisti si capisce subito da dove vengono, questo è decisamente triste.

Il clima culturale e di ricerca legato al superamento dei generi, la teoria queer, vi sta molto a cuore e l’avete affronta anche nei vostri lavori. Che rapporto c’è tra idee e creazione artistica?
DN: Ormai non c’è quasi più distinzione tra la nostra vita privata, i nostri interessi politici e filosofici e quello che proponiamo artisticamente. Tutto si travasa nel lavoro, per questo non posso neanche chiamarlo lavoro e mi sento molto fortunata nel dirlo, quello che facciamo è sempre stato inevitabile. Abbiamo scelto il teatro rispetto al cinema ad esempio, che abbiamo sempre incrociato, proprio per l’immediatezza produttiva, potendo lavorare anche solo con una sedia se non si hanno le risorse. È stata la forma d’arte che ci ha permesso di far confluire i nostri tanti interessi, ogni spettacolo per noi significa affrontare un tema e comincia con una grande fase di studio. Abbiamo sempre accolto anche riferimenti classici, ad esempio con Antigone e oggi con Le Troiane. Stavolta il tema centrale sarà la vulnerabilità dei corpi di queste donne vinte, in attesa di essere vendute come schiave alle spalle una città distrutta che è Troia ma potrebbe essere la Siria o la Libia. Non a caso il libro da cui abbiamo più attinto per Tutto Brucia è Vite precarie di Judith Butler. Non siamo propriamente degli attivisti ma i nostri spettacoli sono sempre inseriti in questioni per noi urgenti.
EC: Non sappiamo bene se siamo noi che guardiamo al contemporaneo o è il contemporaneo che entra nelle cose che facciamo. Ne Le Troiane c’è un senso del lutto molto forte, l’unica verità è la fine e la morte circostante. Non ci saranno riferimenti diretti ma sicuramente un collegamento con il periodo che attraversiamo c’è, con l’impossibilità di espiare il lutto ad esempio.

«Tutto Brucia» avrà un doppio binario, la schiavitù delle troiane e la schiavitù delle donne nigeriane vittime di tratta. Avrà anche due differenti formati scenici, volete anticipare qualcosa?
DN: Vorremmo fare una parte filmica distinta, lavorando con alcune donne nigeriane uscite dal sistema della tratta in Italia. È molto complesso però in questo momento, a causa della pandemia. Oltre alla terribile esperienza della prostituzione, vorremmo raccontare il rapporto con le tradizioni locali e i riti magici che legano queste donne al sistema di sfruttamento. Sono pratiche religiose chiamate juju che vengono usate dalla mafia nigeriana per mantenerle in un regime di paura e di isolamento fortissimo. Speriamo di poter portare avanti anche questa parte, parallelamente allo spettacolo.