«Diversi canali» confermano la morte di Abu Bakr al-Baghdadi: nel giorno in cui l’esercito iracheno ha ripreso la Grande Moschea al-Nuri di Mosul (o meglio, le sue macerie), l’Iran ha affermato di avere le prove dell’uccisione del leader dell’Isis in un raid russo della fine di maggio, vicino la città siriana di Raqqa.

Interviene anche il presidente iraniano Rouhani che ieri si è congratulato con il premier iracheno al-Abadi per la liberazione della città. Che Mosul stia per cadere è innegabile, ma gli scontri sono ancora in corso: i 3-400 islamisti arroccati in Città Vecchia resistono con brutalità all’avanzata graduale delle forze irachene.

Eppure al-Abadi dà ormai per finito Daesh: «Il mito dello Stato Islamico a Mosul è caduto», ha detto giovedì dopo la riconquista di al-Nuri.

Ma nonostante l’importanza simbolica che quella moschea rappresenta per il progetto statuale dell’Isis, l’ottimismo di Baghdad è eccessivo non solo perché la battaglia è ancora in corso, ma perché lo Stato Islamico dimostra ogni giorno di non essere sparito ma di saper colpire ogni angolo del paese, a partire dalle zone non occupate. Ieri l’ultimo attacco, al valico di Al Waleed, alla frontiera con la Siria, respinto dalle forze irachene.

Un ottimismo che probabilmente i 100mila civili intrappolati nei quartieri di Mosul ancora in mano all’Isis non condividono: stretti tra due fuochi, continuano a morire.

«Ci sono centinaia di cadaveri sotto le macerie», ha detto ieri il maggiore Dhia Thamir a cui fa eco il generale al-Aridi:«Le case erano molto vecchie, un raid basta a provocarne il totale collasso». Ovvero, sotto quelle macerie c’è un numero imprecisato di civili.