Duecento morti accertati, ma i numeri si confondono: c’è chi parla di 230, chi di 300. Si scava ancora tra le macerie di decine di abitazioni di Mosul ovest per tirare fuori i cadaveri dei civili presi in pieno da un raid statunitense il 17 marzo.

Anche sulla data i vertici Usa offrono poca certezza: il comando centrale della coalizione anti-Isis ha annunciato ieri che Washington ha aperto un’inchiesta sul raid, compiuto tra il 16 e il 23 marzo «su richiesta delle forze irachene».

Di certo c’è il massacro, il più sanguinoso dall’agosto 2014 quando l’allora presidente Obama inviò i jet Usa contro lo Stato Islamico che aveva appena preso Sinjar e fatto strage di yazidi, ma anche il peggiore dall’invasione dell’Iraq nel 2003. Un massacro che non indigna l’Occidente dei due pesi e due misure, attento a piangere i propri morti dimenticando quelli che provoca.

Il colonnello Thomas, portavoce del comando centrale, ha fatto sapere che l’inchiesta è volta a verificare se le esplosioni nel distretto di Jadida sono state provocate dalle bombe statunitensi o da ordigni islamisti. Il raid Usa c’è stato, spiega, ma gli edifici sono collassi alcuni giorni dopo: va dunque accertato se siano caduti per i bombardamenti o per successivi ordigni fatti esplodere dall’Isis.

Una risposta gliela danno i residenti, quelli che ancora scavano per dare degna sepoltura ai morti: secondo i testimoni i jet della coalizione hanno preso di mira una base islamista piena di esplosivo facendola saltare in aria.

I giornalisti presenti raccontano di donne e bambini senza vita, tirati fuori dalle macerie, schiacciati dai piani superiori collassati su quelli inferiori.

Venerdì erano intervenute le Nazioni Unite, esprimendo la preoccupazione di rito. Il punto è che a Mosul ovest i civili sono in trappola, stretti tra l’avanzata governativa e la strenua e brutale resistenza islamista, fatta di cecchini, mine e kamikaze.

Ne è consapevole il governo di Baghdad, quello che – oltre alla popolazione della città occupata – ha più da perdere da una controffensiva macchiata da crimini simili: l’unità del paese è in serio pericolo, le comunità etniche e confessionali sempre più divise da anni di settarismi e corruzione, e il dramma dei civili sunniti acceso da uniformi sciite non farebbe che ampliare un gap già difficilmente colmabile.

Per questo ieri l’esercito iracheno ha annunciato la sospensione delle operazioni militari su Mosul ovest a causa dell’elevato tasso di vittime civili: «È tempo di pensare ad un nuovo progetto offensivo e nuove tattiche. Le operazioni di combattimento non vanno avanti», commenta il portavoce della polizia federale.

Restano i dubbi sulle possibilità all’orizzonte del governo, che dopo le iniziali vittorie alla periferia di Mosul ovest, ora si trova a poca distanza dal cuore della città, fatta di vicoli stretti e tortuosi, di alta densità abitativa e di Isis sulle barricate. «Abbiamo bisogno di operazioni chirurgiche che prendano di mira i terroristi senza causare danni collaterali tra i residendi», aggiunge il portavoce.

A monte sta il timore che i massacri spezzino definitivamente il paese. Timori che sono realtà quando si guarda alla fuga di massa della comunità sunnita dall’inferno che è oggi Mosul: in città, raccontano gli sfollati, non c’è più acqua né elettricità, di cibo non se ne trova quasi più e i miliziani controllano ogni via di fuga, nascosti nei tunnel sotterranei o sui tetti.

Sarebbero ancora 600mila i civili a Mosul, altri 415mila quelli fuggiti da ottobre quando fu lanciata la controffensiva su Mosul est, liberata a fine gennaio. I dati li dà il governo iracheno che tenta, con le organizzazioni internazionali, di approntare un’accoglienza almeno minima. Ma i numeri sono enormi, i campi improvvisati non sufficienti, così come gli aiuti da fuori.

Sulle spaccature interne l’Isis si muove con destrezza, sfruttandole e alimentandole con le cellule sparse per il paese che con fredda regolarità compiono attentati nelle zone a maggioranza sciita. Per dividere: i sunniti temono l’avanzata di chi dovrebbe liberarli perché sciiti; gli sciiti vedono nella comunità sunnita il focolaio del radicalismo islamista.