Ha immediatamente riscaldato il torpore della Piazza del Popolo in maschera e alle prese con distanziamenti, in apertura alla Mostra di Pesaro un John Landis scatenatissimo su grande schermo in diretta da Los Angeles a ricordare i tempi del suo The Blues Brothers che festeggia quarant’anni. Cinema giovane secondo i canoni della Mostra, realizzato con un budget irrisorio prodotto dalla Universal per essere girato in pochi mesi, rivoluzionario per il rilancio della musica afroamericana all’epoca dimenticata, tanto che la Universal si rifiutò di fare il cd con la colonna sonora perché non lo avrebbe comprato nessuno. Erano i tempi dei Bee Gees. Ritornarono di moda con il film i nomi di Aretha Franklyn, Cab Calloway, Ray Charles, James Brown: «Quando fai un film lo fai per un sacco di motivi, ha raccontato Landis, per me era riportare l’attenzione al Blues». E ha poi raccontato come si è trovato lui stesso a fare lo stunt nella spettacolare scena del centro commerciale: «in realtà per me è stato semplice, quelli che dovevano stare attenti erano i pedoni. In Australia andava di moda una specie di gioco come Crash di Cronenberg, gli stunt australiani mi hanno spiegato che c’era una specie di pista che si sollevava, tu volavi e naturalmente le auto erano truccate, potevano levarsi in volo o cappottarsi come nella mia scena».

PER TORNARE al cinema sperimentale contemporaneo abbiamo individuato principalmente due filoni di nuove immagini su cui hanno lavorato i registi per lo più trentenni del concorso appena iniziato: si nota infatti (con la tendenza a sconfinare) una netta divisione tra una visione in qualche modo «mistica» alla ricerca di qualcosa di nascosto dietro il visibile, nelle tenebre temporali e nei paesaggi densi di mistero come le Azzorre di Paulo Abreu (O que nao se ve), la cavità delle antiche terre Maya in Cenote di Oda Kaori (film più volte citato nella nostra top ten di fine anno).

E UNA TENDENZA «scientifica» basata su elementi esattamente misurabili: è il caso di Subject to review di Theo Anthony che studia il sistema di replay istantaneo (Hawk-Eye) nel tennis professionista, con le contraddizioni tra vista umana e vista tecnologica. Oppure Thik Air cinediario di Stefano Miraglia, la ricerca di un suono particolare «l’aria spessa» da parte di una band (con apparizioni di Roscoe Mitchell, Headwar, Thurston Moore,KVB). L’elemento scientifico è centrale nell’ipnotico e impressionante There will be no more night di Eléonore Weber (studi di diritto e filosofia) montaggio di riprese realizzate con le telecamere termiche dell’esercito francese e americano in Afghanistan, Iran e Siria. Non ci sarà più notte e neanche un luogo dove nascondersi.

LA VOCE dei piloti in ricognizione individuano fonti di calore umano da colpire secondo le regole di ingaggio, con la possibilità d’errore (soldati con kalashnikov? contadini che lavorano i campi? reporter occidentali con un cavalletto per l foto?) e si alternano alla voce fuori campo della regista che in qualche modo pilota anch’essa lo spettatore verso questioni di tipo etico (quanto lontano può portare il desiderio di vedere quando è usato senza limiti?). È uno shock visivo quando si passa dal bianco e nero del monitor al bianco abbagliante del fuoco sterminatore, difficile distinguere un soldato da un civile dove tutti sono armati, individuati anche quando gli afghani si coprono con coperte, un espediente già utilizzato da Ulisse e i suoi con le pelli di pecora. Impossibile vedere le persone, si distinguono solo gli obiettivi. Il cinema di finzione utilizza questo dispositivo, ma in questo caso lo si fa per tutta la durata del film cosa che permette una serie infinita di riflessioni a cominciare dall’istinto a colpire dello spettatore. «L’idea del film è nata quando lavoravo sulle guerre in medio oriente», dice Weber in collegamento video, «scoprendo queste immagini ho pensato che bisognava fare un film perché ho visto un rapporto sulle pulsioni dei piloti a bordo. Ho guardato i materiali insieme a un pilota dell’esercito francese, il testo nasce dalle discussioni fatte in quell’occasione. Questo modo così sofisticato di fare la guerra dice molto sull’essere umano: i piloti vedono la morte che provocano ma non la guardano, la morte è impossibile da guardare. Il film lavora poi su un altro tipo di ipotesi, la contraddizione tra la visione e l’imperativo a uccidere».