Nel maggio del 1941, quando i tedeschi decidono di invaderla per via aerea, Creta diventa luogo di una violenta battaglia, e poi di una lunga occupazione. Nonostante la netta superiorità militare, l’intervento non è privo di perdite per gli uomini di Hitler, che guardano all’isola del Minotauro come a una postazione di importanza strategica per il controllo del Mediterraneo.

Anche il mare dell’intimità – così lo chiamava un suo grande figlio, Predrag Matvejevic, sulla scia di Braudel – è ridotto dalla barbarie nazista a uno scolo di sangue.

A Creta le tracce della strage non sono più, oggi, immediatamente visibili, eppure basta una visita a Maleme – dove si trova il cimitero dei caduti tedeschi, non lontano da Chania, nell’estremo nord-ovest – per rendersi conto di cosa sia stata la guerra, anche in mezzo alle prodigiose, impenetrabili montagne cretesi: l’enorme distesa dei morti cozza potentemente contro la forza del paesaggio.

Parecchi luoghi conservano tuttora un silenzioso ricordo della distruzione e dell’oppressivo controllo tedesco, o dell’occupazione italiana, che ha interessato soprattutto la parte orientale dell’isola.

Ma Creta è stata anche, negli anni orribili del crollo di Europa, il teatro dove si sono incrociate vite letteralmente straordinarie. Per esempio quella di George Psychoundakis, giovanissima staffetta che svolge un ruolo di insostituibile supporto per l’esercito inglese: un pastore che, dopo la fine del conflitto, decide di tradurre l’Iliade e l’Odissea in greco moderno.

O quella di John Pendlebury, ombroso erede di sir Arthur Evans agli scavi di Cnosso, e più tardi vice console britannico a Heraklion, morto tragicamente proprio all’arrivo dei nazisti. O, naturalmente, quella di Patrick Leigh Fermor – per amici e compagni di battaglia semplicemente Paddy – lì paracadutato e destinato a diventare un eroe di guerra, oltre che impareggiabile scrittore di viaggio, conosciuto dai lettori anzitutto grazie a Mani, il libro sui suoi soggiorni nel Peloponneso, pubblicato da Adelphi. La romanzesca azione che lo consacra è il rapimento del generale Heinrich Kreipe, condotta appunto dallo stesso Paddy e da un suo compagno d’armi, Stanley – Billy – Moss.

Fermor racconterà l’impresa in un breve resoconto ad oggi non ancora tradotto dalle nostre parti, Abducting a general (London, 2014). Ma è soprattutto Billy, in questo caso, a consegnare alla storia l’episodio: il suo diario, Ill Met By Moonlight, pubblicato nel 1950, è noto soprattutto grazie all’omonimo, grande film di Powell e Pressburger (con Dirk Bogarde a impersonare proprio Patrick Fermor).

Ora il pubblico italiano può leggere anche le pagine di Moss nella scorrevole, bella traduzione di Gianni Pannofino, Brutti incontri al chiaro di luna Il rapimento del generale Kreipe (Adelphi «Collana dei casi», pp. 213, € 19,00). Ed è davvero azzeccata la grazia un po’ irriverente di quel titolo tradotto. È la stessa che hanno addosso Paddy e Billy: ventinove anni il primo, appena ventidue il secondo, e un coraggio che non rinuncia all’eleganza, oltre a una specie di malinconica allegrezza che nasce forse proprio dal contatto giornaliero con il rischio della morte, come per allontanarla.

Nell’aprile del 1944 gli inglesi decidono di lanciare un segnale forte e chiaro ai tedeschi, organizzando un improvviso attacco che avrebbe portato appunto al rapimento di Kreipe, con la speranza che il colpo inferto ai nazisti si rivelasse decisivo per le sorti della guerra a Creta (Fermor aveva già propiziato, dopo l’armistizio dell’8 settembre, la fuga del generale italiano Angelo Carta – in rotta con i metodi nazisti – verso il Cairo).

La sera del 26 aprile, vestiti da ufficiali tedeschi, Fermor e Moss – aiutati da un gruppo di fedelissimi greci – attendono la macchina di Kreipe, che compie come ogni ogni giorno il percorso per tornare verso la propria residenza, la mitica Villa Ariadne, l’edificio fatto costruire da Evans dirimpetto al sito del palazzo di Cnosso. A un crocicchio all’altezza di Archanes – a circa un chilometro dalla sua meta – Paddy e Billy fermano la vettura, disarmano l’autista e prendono in ostaggio l’alto ufficiale.

Qui si gioca una prima, breve ma intensissima parte dell’avventura, che ha quasi dell’incredibile: l’auto attraverserà ben ventidue posti di blocco, sparpagliati nel gomitolo stretto delle vie di Iraklio. Sono la freddezza di Billy e la perfetta padronanza del tedesco sfoggiata da Fermor a permettere al drappello di farla franca.

Oltre al cappello da generale sottratto a Kreipe e bellamente esibito da Paddy: «Paddy, seduto alla mia destra, fumava e aveva un’aria davvero imperiosa con il berretto del generale in testa», si legge nelle pagine dedicate al giorno fatale, e che cominciano con un proclama pronunciato con disarmante semplicità, quella dell’adolescente spavaldo e impunito: «Ecco, lo abbiamo fatto».

Il resto dell’avventura dura poco più di quaranta giorni, ed è una sorta di fuga sul posto: il manipolo greco-inglese si rifugia tra le montagne di Creta, mentre l’esercito tedesco cerca sempre più insistentemente di braccarli, seminando intanto la vendetta e la morte fra i villaggi («la brutalità tedesca a Creta assumeva quasi sempre la forma del semplice, sistematico massacro», scrive Moss).

La scena del racconto, intanto, oscilla fra un pathos eroico-drammatico e la spensieratezza, talora persino l’ironia e il grottesco. Basta pensare alla sorte di Kreipe: disteso sotto i piedi dei suoi rapitori, nella parte posteriore della vettura; oppure – cinquantenne affaticato e appesantito – trasportato su un mulo (Going to heaven on a mule, canticchia qualcuno sbeffeggiandolo) e protagonista di un paio di rovinose cadute, o di diverbi e battibecchi soprattutto con Moss («conosco il suo segreto – annota un Billy infastidito e insonne – e ho cercato invano di applicarlo a me stesso: appena prima di coricarsi tracanna gran sorsate di raki, per il quale ha sviluppato una vera passione, e questa bevuta della buonanotte lo stende nel giro di pochi minuti. Lo invidio»). Con Fermor, al contrario, Kreipe si intrattiene parlando di Sofocle e altri classici (altrove – nel suo Tempo di regali – Paddy rievoca un’ode oraziana recitata insieme, con le nevi di Creta che richiamano alla memoria quelle del Soratte).

Forse le parti più belle e toccanti del diario sono i passaggi in cui davvero la forza della gioventù prende il sopravvento, forte della propria freschezza, anche sull’aria di guerra. Sono le pagine in cui, lasciata Heraklion alle spalle, una «grandiosa euforia» assale i fuggitivi: «abbiamo cantato The party’s over e io mi sono acceso una sigaretta: è parsa la più buona che abbia mai fumato»; oppure il ricordo di una conversazione tirata fino a mezzanotte, parlando di François Villon, «dei cui versi Paddy ha fatto alcune traduzioni», ricorda Billy.

Ma il lettore non manchi poi di guardarli in faccia, questi due ragazzacci gentili, dei quali anche Kreipe riconoscerà la «cavalleria» e il «rispetto», una volta trasportato, di nuovo con una fuga rocambolesca via sottomarino, al Cairo. Li si vede nelle splendide foto che arricchiscono il libro: fra gli andartes, i partigiani greci; con la cravatta annodata sotto l’uniforme; o seduti su una roccia, a conversare con il nemico; oppure durante una marcia sulla neve, sulla punta dello Psiloritis, il mitico Monte Ida. In fondo no, la morte non sembra proprio riguardarli.