Quando la superiorità di un atleta è così schiacciante da rendere routine i suoi successi può accadere quello che è capitato a Edwin Moses, che appena ventenne vinse i 400 ostacoli a Montreal ‘76, sbucando dal nulla e ripiombandoci subito dopo. Da quell’inizio fulminante, l’ostacolista americano inanellò una serie di imprese eccezionali, che sortirono il paradossale effetto di ridimensionarne il valore: battere quattro volte il record del mondo, scendere sistematicamente sotto i 48’’ e restare invitto per 9 anni, 9 mesi e 9 giorni, frenarono gli entusiasmi piuttosto che alimentarli.

Moses aveva una storia particolare. Alla finale olimpica canadese, il telecronista americano lo introdusse come un bravo studente di fisica e matematica al Morehouse College di Atlanta, l’università nera già frequentata da Martin Luther King. Sorvolò sul suo pedigree sportivo, poiché Moses aveva esordito negli ostacoli bassi solo quattro mesi prima, strappando il pass olimpico con una progressione portentosa. Inoltre, le lenti scure, la capigliatura afro e una sottile collana in cuoio gli conferivano un aspetto distaccato, quasi sinistro, che i rari sorrisi non potevano dissipare.

Così presentato, si accomodò in quarta corsia, quella del favorito. Squadrò gli avversari e scattò dai blocchi con un leggero sbandamento, pestò la riga divisoria della corsia interna e poi si distese nella falcata che l’avrebbe reso famoso. Vinse con il primato mondiale di 47’’64 e si impegnò in un giro d’onore con il secondo arrivato, il connazionale bianco Michael Shine. La circostanza fu sottolineata come una plastica rappresentazione degli ideali di fratellanza incarnati dalle Olimpiadi, ma non bastò ad accattivare al neo-olimpionico maggiori simpatie.

 

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Un paio di anni dopo si chiedeva in un’intervista il perché di tanta freddezza: ovunque era festeggiato come un fuoriclasse e negli Usa neanche lo riconoscevano per strada. Dopo esser stato sconfitto dal tedesco occidentale Harald Schmid, il 26 agosto 1977, iniziò la formidabile serie di vittorie consecutive. Marchio di fabbrica, la celebre cadenza di 13 passi fra una barriera e l’altra, mentre gli altri dovevano sgambare almeno 14 volte. Dipendeva tutto da due gambe lunghe e potenti, un’inedita combinazione di grazia, forza, etica del lavoro e applicazione metodica.

Figlio di due insegnanti, aveva preso la scuola molto sul serio. Era un secchione, passava i pomeriggi a sezionare rane, catalogare fossili e costruire vulcani. Non pensava che sarebbe mai stato uno sportivo di livello, soprattutto dopo che era stato escluso dalle squadre di football e di basket. Scoprì che l’atletica gli era più congeniale. Era solo una questione fra lui, la pista e il cronometro. Per un laureando in fisica, non c’era niente di meglio: tutto era chiaro e oggettivo, niente arbitri o discrezionalità. La biomeccanica, l’ingegneria, i sistemi informatici di misurazione ed efficientamento delle prestazioni informarono la sua preparazione, che conduceva da solo, coach di se stesso.

Ridefinì i limiti della specialità, trionfò ai Mondiali di Helsinki con una scarpa slacciata, il giorno del suo compleanno, il 31 agosto 1983, limò a 47’’02 il record mondiale, nel settembre 1987 doppiò l’iride superando di un soffio Danny Harris, che il 4 giugno precedente aveva interrotto a 122 vittorie la sua striscia vincente. Intanto, aveva finalmente ottenuto l’unanime riconoscimento che cercava da anni. Ai Giochi di Los Angeles del 1984, scelto per recitare il giuramento olimpico, fu sopraffatto dall’emozione e dovette ricominciare tre volte: più dell’ennesimo oro, conquistato di lì a poco, quell’esitazione vinse finalmente il favore del pubblico.