Scrisse Hermann Broch che Vienna fin-de-siècle non era «tanto la città dell’arte quanto la città par excellence della decorazione». Loos e Kraus provarono a resistergli, ma il Modern Style, come chiarì Benjamin, si distingue per la «ventata ornamentalista» che se ne impossessa. Nella capitale della monarchia austro-ungherese si raggrumò «stile inglese» e giapponismo, antichità greco-romane e «intrecciati motivi di culture piuttosto diverse e lontane» in modo così «semplice e infantile» da comporre, a detta di Hoffmannsthal, un «regno semplicemente infinito» come quello della natura.
Del trionfo dell’ornamenta, Koloman Moser è stato uno dei più importanti artefici che resero Vienna un unicum tra le capitali europee per le esemplari prove generate dalle relazioni tra arte e industria, pulsioni sentimentali e razionalità, simbolismo e oggettività. Il MAK (Museum für angewandte Kunst), per commemorarlo nel centenario della morte, gli dedica una mostra (fino al 22 aprile) che spiega il multiforme e raffinato mondo di quest’artista e designer. In cinque sezioni è illustrata in ordine cronologico la sua carriera attraverso l’esposizione di circa cinquecento oggetti tra dipinti, grafiche, mobili, vetri, ceramiche, rilegature di libri, scenografie, abiti e tessuti.
Il percorso espositivo inizia dalle relazioni di Moser con la giovane generazione di artisti cresciuti intorno al 1890 e presto famosi con la creazione della Secessione (1897). Si prosegue con l’influenza esercitata da Otto Wagner con le sue idee «riformatrici» sull’architettura nella direzione dell’unità tra forma e funzione. Si passa poi al prolifico periodo degli oggetti disegnati per la Wiener Werkstätte – la società fondata nel 1903 con Josef Hoffmann –, per chiudere con gli anni consacrati alla sola pittura. Curata da Elisabeth Schmuttermeier con Christian Witt-Dörring, la mostra, come si legge in catalogo (Birkäuser), «non si focalizza sullo sviluppo stilistico di Moser», piuttosto sulle varie discipline che l’attrassero. Complice, forse, lui stesso, convinto come altri che «creare artisticamente significa avere esperienze artistiche», ma fortunato come pochi per «versatilità nelle tecniche dei vari mestieri», apprese fin da bambino nei laboratori artigiani nei pressi del Theresianum.
È il suo diario (Mein Werdegang, 1916) a guidarci fra le tappe rilevanti della sua carriera, indirizzata al raggiungimento dell’ideale estetico dell’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), che ha inizio negli anni dell’infanzia e prosegue all’Accademia d’Arte (1885) e alla Kunstgewerbeschule (1892). In seguito, ormai maturo, saranno gli esegeti del modernismo viennese (Burckhardt, Hevesi, Bahr) a raccontare con puntualità le sue imprese, in particolare quelle cpndotte insieme ai suoi amici Helmer, Klimt, Engelhart, Moll, Olbrich, ma soprattutto Hoffmann. Sono le «giovani forze» che, insoddisfatte dei precetti edulcorati e noiosi dell’associazione degli artisti austriaci (Künstlerhaus), nel 1898, un anno dopo avere fondato la Secession, inaugurano il loro «piccolo tempio bianco» sulla Wienziele: disegnato da Olbrich ma interamente decorato con bassorilievi e fregi da Moser. Il Secessionsgebäude, con sopra il fortunato landmark della cupola sferica in foglie d’oro, è pronto per accogliere gli stili della modernità. Peccato, com’è documentato in mostra, siano andati persi una serie di elementi. È il caso del rosone in vetro colorato (Genius der Kunst) sopra l’ingresso della sala principale, rimosso nel 1907, oltre ad altri decori policromi all’esterno. Ci è così in parte interdetto «vivere il sensazionalismo» che provò Bahr, il mentore del gruppo, mentre restano profetiche le parole dello scrittore, che Moser prese a motto dell’edificio: «Possa l’artista mostrare il suo mondo, la bellezza che nasce con lui, che non era mai esistita prima e non esisterà mai più».
Sempre nel 1898 Moser inizia a collaborare con Hoffmann a «Ver Sacrum», la rivista ufficiale del movimento secessionista, nelle cui pagine si combinano disegni e decori con testi letterari e poetici di Hofmannsthal, Rilke, Maeterlinck. In mostra sono esposte le vignette e le tavole grafiche che hanno fatto apprezzare fin da giovanissimo Moser come illustratore. L’illustrazione, infatti, è «la piattaforma per la sua creatività» (Pokorny-Nagel), che servì sia da sostegno economico, sia per superare lo Stile-Makart, nel quale l’Austria allora sembrava immersa. Ispirato dalla stampa illustrata tedesca («Pan», «Jugend», «Simplicissimus») e dal suo incontro con gli illustratori monacensi intorno a Robert Engels, egli sviluppa con successo, coerentemente con l’evoluzione delle tecniche di stampa, una inconsueta linea grafica: prima simbolista e poi sempre più geometrica. Il passaggio all’editoria d’arte sarà una diretta conseguenza di tutto ciò, come documenta la lussuosa monografia su Segantini di Franz Servaes (Martin Gerlach, 1902) e alcune altre rilegature. Nello specifico, però, la mostra evidenzia bene – sebbene non sia interesse dei curatori seguire gli sviluppi dello stile moseriano – il salto dalla superficie verso l’«arte dello spazio». Solo il Raumkunst, infatti, è in grado di incorporare in armonia tutti gli oggetti della vita quotidiana.
Moser fa sua la nuova visione olistica elaborata in forme stilizzate (Mackintosh, van de Velde, Ashbee), ma, attraverso il suo «buon gusto poetico» (Hevesi), ridotta a essere più essenziale e astratta. Bahr ricorderà l’appellativo che gli diedero i viennesi: l’«uomo dei quadrati». Sarà, infatti, nella rigorosa ripetizione del quadrato, insieme all’accorta applicazione delle leggi figura-fondo e alternanza di bianco-nero, che Moser si avvia a superare la flessuosa linearità art nouveau, anche quella di Olbrich. In direzione purovisibilista il lavoro moseriano qualifica così l’intera produzione della Wiener Werkstätte confermando in molti casi il suo ruolo preminente rispetto al suo socio Hoffmann. In particolare negli arredi con i suoi «mobili semplici»: dalla famosa poltrona per il Sanatorio di Purkersdorf o i mobili verniciati «a muro» ideati per la sua casa sulla Hohe Warte, fino a quelli disegnati per l’appartamento di Eisler von Terramare o per casa Waerndorfer, sempre funzionali seppure intarsiati.
L’interno domestico moseriano raggiungerà il suo vertice a Bruxelles nell’atrio di Palazzo Stoclet (1905-’11), dove fu chiamato, insieme a Klimt, da Hoffmann, estendendosi poi agli abiti per signore, in un certo senso «architetture da indossare». Nel 1907 Moser lascia la Wiener Werkstätte, consumato ormai dalla volatilità del gusto di una committenza sempre più esigente. Si dedicherà solo alla pittura finché un cancro alla laringe non se lo porterà via, e con lui la «maschera» di ciò che Oscar Wilde chiamò «l’impenetrabile barriera del bello stile».