Il nuovo film di Ridley Scott – in sala domani – arriva preceduto da polemiche; all’estero i divieti in alcuni paesi musulmani -Egitto, Marocco, Emirati Arabi – con l’accusa di dare un volto a Dio, cosa che è severamente proibita dall’Islam, e soprattutto di creare «falsi storici» nella ricostruzione della figura di Mosè che ne è il protagonista. Mosè, infatti, come ci ricorda Maulana Muhammad Ali nel suo La Storia dei profeti – Come è narrata nel Sacro Corano a confronto con la Bibbia, «è quello più frequentemente menzionato». Mosè, inviato da Allah al Faraone per liberare dall’oppressione faraonica i Figli di Israele, «è il primo profeta ad essere nominato nel Libro Sacro, nel capitolo intitolato al-Muzzammil, terzo per ordine cronologico».

Sulla veridicità storica Scott è stato criticato anche da molta stampa occidentale, così come sulla scelta degli attori – nessun African-American se non per le parti di schiavi – a cominciare dal ruolo principale, Mosè, interpretato dal Batman Christian Bale.
«Scott non è Mel Brooks, Exodus è grottesco solo a suo discapito» ha scritto il New York Times dopo l’uscita americana il mese scorso. Variety, invece, pur condividendo le critiche relative al casting, ne ha apprezzato gli aspetti meramente spettacolari. La critica d’oltralpe (Libération, Le Monde) lo ha stroncato duramente a sua volta, sostenendo che Scott riduce la Bibbia a un blockbuster (Le Monde), cosa che di per sé non sarebbe poi così disprezzabile.
È vero, Ridley Scott si prende molte libertà, nel dialogo ad esempio con l’utilizzo, almeno nella versione italiana, di termini contemporanei, come quando alla ragazza madianita che diverrà sua moglie, Zippora (o Sefora) – Maria Valverde – Mosè parlando della corte dei faraoni dice che lì sono senz’altro «più civilizzati» rispetto a Madian, l’oasi di pastori sperduta nel deserto in cui ha trovato rifugio durante la sua fuga.

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Da calligrafo impertinente e ormai fuori tempo massimo, avendo raggiunto a suo modo una classicità atemporale (come notava su queste pagine Giulia D’Agnolo Vallan a proposito di The Counselor), ultimo esponente di quel post-moderno chic che con il celebrato Blade Runner ha mietuto migliaia di vittime fra la critica che l’ha elevato agli onori della politique des auteurs, Scott trova oggi, paradossalmente, più che ieri, una sua bizzarra necessità, come fautore di un gesto cinematografico olimpicamente gratuito. Ed è proprio nei suoi film più facilmente attaccabili, come Le crociate, tanto per restare in ambito di temi «caldi», che si ritrova anche un indizio di sguardo sul mondo del regista (proprio come The Counselor non era altro che la crisi della finanza occidentale ridotta a un’ossessione del principio di piacere).

In questo senso, pur essendo chiaramente un film «politico», sia rispetto a quanto dichiara sulla Hollywood di oggi, sia riguardo alla posizione che assume non tanto nei confronti dei testi sacri, quanto al classico di De Mille, Scott si premura soprattutto di fare un film «à la Ridley Scott». Pertanto taglia senza problemi i quarant’anni nel deserto in attesa di entrare a Canaa, le lotte interne degli israeliti, elimina il vitello d’oro e le orge, anche se si intuisce, osservando il finale vagamente «tronco», che forse il regista progettava una durata ancora maggiore delle quasi tre ore (150′) attuali. Tutto questo comunque fa parte della tradizione del peplum cui Exodus. Dei e re – kolossal in 3D con due anni di lavorazione, e nel cast attori come Ben Kingsley che nel frattempo sono scomparsi – aderisce. A cominciare proprio dalla «modernizzazione» dei miti di partenza, la Bibbia e il cristianesimo del dio crudele delle antiche scritture rigenerato poi dall’avvento di Gesù Cristo. Non è la prima volta per Scott, che si è già cimentato con l’antica Roma ai tempi di Gladiator, e che nelle possibilità tecnologiche trova un buon mezzo per ripercorrere il genere mischiando le carte.

Più che l’interpretazione religiosa, al regista sembrano interessare altre questioni nella storia di Mosè, il ragazzo cresciuto alla corte del Faraone (John Turturro) che lo predilige al proprio figlio, intuendo in lui una intelligenza e una forza morale assenti nella prole, ma che si scopre a un certo punto di essere israelita. Anzi di più, di essere colui che gli israeliti schiavi degli egiziani ormai da secoli aspettano per compiere il loro riscatto. Ed è proprio questo il nodo cruciale su cui Scott costruisce il «suo» Mosè: «Si deve combattere o restare per sempre schiavi» ripete l’uomo al suo popolo che addestra militarmente, e spinge alla lotta armata, unico «mezzo necessario» per farcela (quasi una retrodatazione dell’immagine nuova dell’ebreo sorta dal sionismo dopo la Shoah), seppure con l’aiuto di dio – che non è indifferente allo scontro e che invia le dieci piaghe e apre il Mar Rosso per lasciare passare il popolo ebraico, richiudendolo sull’esercito di Ramses (Joel Edgerton).

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L’azione (armata) assume la forma di una guerriglia: attacchi ai convogli alimentari, alle risorse del popolo egizio ecc. Con una differenza: senza la fede, senza cioè l’intervento divino, tutto questo si risolve in poca cosa. (Exodus ci dice infatti che tutte le guerre, al di là delle eventuali ragioni di Stato, anche quelle di emancipazione, sono diventate guerre di religione.
La modalità di lotta degli israeliti che seguono Mosè potrebbe far pensare alle azioni dei gruppi sionisti in Palestina. Del sionismo, d’altra parte, questo Mosè incarna lo spirito, l’idea dell’uomo fisicamente e mentalmente all’altezza delle sfide, l’Uomo nuovo cresciuto nei kibbutz che si contrapponeva alla figura debole dell’intellettuale europeo che era stato massacrato dal nazismo. Lo sconforto spaesato e passivo a cui erano stati piegati i tanti cittadini europei ebrei chiusi prima nei ghetti e poi uccisi, non doveva più essere possibile, andava contrastato coltivando il corpo, le armi, la capacità di combattere. Non c’è giudizio in questo, ma solo chiavi di possibile accesso legando appunto il mito alla storia, ed ecco che diventa tangibile l’evocazione dell’erranza associata al popolo ebraico: una moltitudine di persone costrette al moto perpetuo .

Mutando il segno però l’immagine delle armi contro l’oppressore può adattarsi anche a altro: le piazze arabe in rivolta di questi ultimi anni, o nella caccia agli israeliti messa in atto dall’esercito di Ramses, si possono vedere i tank israeliani a Gaza…
È l’aspetto più interessante del film: Scott ci ricorda che una volta anche gli ebrei erano dei palestinesi. E Mosè, da condottiero militare, vede anche nel futuro i conflitti che avranno come protagonista il suo popolo. La guerra non finisce mai. Senza contare che lo stesso Mosé venne rimproverato per essersi sposato con una donna «straniera». L’iconografia novecentesca della Storia d’Israele rimane comunque il riferimento principale che Scott innesta nel suo racconto biblico. Dio che viene mostrato nelle sembianze di un ragazzino implacabile, somiglia ai bimbi ebrei chiusi nei lager hitleriani (e quando Ramses scatena la sua repressione nel ghetto degli schiavi israeliti non si può non pensare ai rastrellamenti nei ghetti dell’Europa della seconda guerra mondiale).

Ed è proprio il dio bambino l’aspetto più curioso del film. Stando allo schema delle cinque fasi freudiane, il dio immaginato da Steven Zaillian e dal suo pool di sceneggiatori sarebbe un bambino che si trova nella «fase di latenza», il quarto periodo di sviluppo psicosessuale. In questa fase la libido è dormiente e le pulsioni sublimate in altre direzioni. Freud suggerisce che questa fase serve per sviluppare la socializzazione e dare vita a rapporti di amicizia con soggetti dello stesso sesso. É quando il gioco diventa sempre più serio e privo di implicazioni sentimentali e, soprattutto, si sviluppa il senso di dominio e di moralità. E il bambino inizia a identificarsi con il padre. Come dire che dio si vede come… Dio. Per questo suscitano molto interesse le modalità attraverso le quali Scott rievoca la scrittura delle tavole della legge. Mosè, ricurvo sulla pietra come San Gerolamo nel suo studio, scrive mentre Dio gli parla. Ma Dio gli parla d’altro.

Mosè è l’amico di Dio (il bambino che sviluppa la sua capacità di socializzazione). Ed è da questo dialogo, tenero e rude, brusco, che scaturisce la legge, precetti che servono per tenere unito un popolo in cammino. La scrittura, ossia la parola resa disponibile, riproducibile, diventa uno strumento per creare da un popolo una società. Scott non dice che la legge è la parola di Dio. (Potrebbe anche essere la dolce allucinazione di un uomo che ha combattuto per tutta la vita e s’immagina una tregua…). Si limita a suggerire che Mosè, in quanto militare giunto alla fine della sua carriera, ha bisogno di uno strumento più potente delle armi per tenere unito il suo popolo: la parola diventa scrittura.