Bocche cucite. L’incontro di Bratislava tra il ministro italiano Padoan e il commissario europeo Moscovici è stato «costruttivo», ma naturalmente «non è la fine della storia», come sottolinea il francese. Di più i due ministri non concedono, ma la sensazione netta è che si sia trattato di un colloquio interlocutorio, al quale seguiranno molti altri passi mai definitivi. Per conoscere «la fine della storia» bisognerà attendere la riunione dell’Eurogruppo del 5 dicembre, guarda caso proprio il giorno dopo il referendum. Non è detto che a quel punto le cose siano più facili, in compenso è certissimo che tutti avranno le mani più libere senza più la spada di Damocle di una consultazione che ha valenza europea.

Di sicuro la lettera di chiarificazioni inviata da Padoan alla vigilia dell’incontro, giovedì sera, non basta a risolvere il contenzioso. I due principali elementi critici non sono stati sciolti: l’Italia insiste nel sostenere che le spese per la messa in sicurezza del territorio, non solo quelle per la ricostruzione, non devono essere calcolate. L’Europa non concorda. L’Italia difende la struttura di una legge che, come ha ripetuto ieri il ministro dell’Economia, garantisce «innovazione». L’Europa la considera troppo basata su misure una tantum per garantire il rientro dal deficit nel 2019.

Se fossero in ballo solo cifre e parametri sarebbe un muro contro muro. Ma di mezzo c’è la politica, che stempera il conflitto in nome di un comune interesse «anti-populista». «Per la Commissione punire è l’extrema ratio», assicura Moscovici: «Io preferisco la convinzione». E anche l’Italia, i cui toni sono sensibilmente più duri in buona parte a scopo propagandistico interno, ruggisce ma sottolinea comunque la propria intenzione di non derogare dalle norme. Padoan la butta sul diplomatico: «Le regole vanno rispettate ma a volte sono scritte male». Renzi è più grintoso: «Qui se uno chiede il rispetto delle regole passa per Pierino. Ma quando la Germania ha sforato il tetto del 3% l’Italia, con Berlusconi premier e Tremonti ministro, ha acconsentito».

Tenendo conto dell’agenda reale, si tratta ancora di pretattica. La manovra dovrebbe arrivare in Parlamento, con 10 giorni di ritardo sulla data fissata per legge, oggi o domani, essendo stata firmata ieri dalla Ragioneria dello Stato e inviata al Quirinale. Sino all’ultimo è stata corretta e modificata. Per quanto surreale sembri e sia, il braccio di ferro Italia-Ue fino a ieri era ingaggiato intorno a un testo nei particolari ignoto.

Alla fine di ottobre la Ue dovrebbe dire se accetta o respinge la manovra, ma non prenderà la scadenza più seriamente di quanto abbia fatto il governo italiano con la data della trasmissione del testo al Parlamento: farà finta di niente fino a metà novembre. Il 16 il parere della Commissione sarà ufficiale ma si tratterà di nuovo di un rinvio: l’ultima parola spetterà all’Eurogruppo, l’assemblea dei 19 ministri delle Finanze, convocata all’indomani del referendum italiano.

Non saranno solo le questioni interne italiane a pesare sul verdetto. La Commissione, almeno a giudicare dai segnali distensivi lanciati in questi giorni, sarà probabilmente almeno ben disposta, perché vuole sostenere Renzi ma anche perché l’Italia fa pesare per intero sulla bilancia il proprio ruolo essenziale, e ben poco coadiuvato dall’Ue sul fronte dell’immigrazione. Lo scontro tra Italia e Ungheria non accenna a placarsi. Renzi ripete la minaccia di non firmare il bilancio europeo se l’Ungheria continuerà a non accettare le sue quote di profughi. Orbán replica promettendo di mettere a sua volta il veto sul bilancio e accusando l’Italia di non rispettare per prima le regole visto che non presidia i confini. In un quadro simile la Ue rischia davvero di dover scegliere «tra l’Italia e Orban».

Ma se la disposizione della Commissione dovrebbe essere favorevole altrettanto non può dirsi per alcuni ministri delle Finanze, primo fra tutti il tedesco Schauble, da tempo inviperito con una Commissione giudicata troppo molle. Il confronto sarà tra Ue e Italia ma sullo sfondo ci sarà quello, ancor più rilevante e minaccioso, tra la Germania e la Commissione.