«Il regime ha fatto grandi passi avanti. I ribelli si combattono tra di loro, si rubano e si nascondono a vicenda cibo e munizioni. Dopo sei anni non hanno trovato un modo per risolvere [la questione] e siamo finiti sotto un assedio di più di 80 giorni». All’agenzia Middle East Eye Jamel Agha, 34 anni e 4 figli, residente ad Aleppo est, non nasconde la frustrazione che pervade da mesi la città.

«Solo Dio sa quando finirà», le sue ultime parole di rassegnazione per chi vive sotto assedio interno e esterno dal 2012 con l’escalation barbara e terribile dell’ultimo anno. Un anno di offensive e controffensive che si sta oggi trasformando nella capitolazione delle opposizioni. Non sono bastati gli aiuti dall’estero, le armi e il denaro che dal Golfo e l’Occidente sono transitati via Giordania e Turchia: l’opposizione politica degli inizi è evaporata, lontanissima dalla popolazione, e l’ago della bilancia è finito in mano ad un ampio fronte sunnita radicale.

Ma se la Turchia mantiene vivo il ruolo di incendiaria, è invece scomparsa l’Arabia Saudita: dopo anni di finanziamenti ma nessun sostegno ai rifugiati che ha generato, dopo la creazione forzata dell’Alto Comitato per i negoziati (federazione anti-Assad che mette insieme laici e salafiti), Riyadh si è defilata. Più o meno come l’Europa.

L’altro protagonista è la Russia che in un anno di intervento militare ha ribaltato le sorti della guerra. Gli Stati Uniti rincorrono: dopo aver tolto il sostegno all’evacuazione dei ribelli discusso con i russi pochi giorni fa, ieri il segretario di Stato Kerry ha confermato le voci di un accordo e di un ultimo incontro con il ministro degli Esteri russo Lavrov nella tarda serata di ieri.

E sebbene il presidente Assad in un’intervista con il quotidiano Al-Watan si dica sicuro di una vittoria ad Aleppo ma non delle sorti del conflitto («È vero che sarà un successo per noi, ma siamo realisti, non significherà la fine della guerra»), è Mosca che detta tempi e modalità: ieri ha annunciato la sospensione dei raid per permettere l’evacuazione dei civili e dato per quasi siglato l’accordo con gli Stati Uniti per far uscire dai quartieri est i miliziani anti-Damasco.

Un passo obbligato con i governativi che hanno ripreso il 70% di Aleppo est. Già mercoledì, dopo aver rigettato qualsiasi piano di evacuazione, le opposizioni avevano chiesto una tregua immediata di 5 giorni: ufficialmente per permettere i soccorsi ai civili, ufficiosamente per prendere fiato.

La battaglia potrebbe dunque continuare, con gli ultimi strascichi che prospettano immani sofferenze e brutali violenze: l’inverno è arrivato, di cibo e acqua non se ne trovano quasi più, chi ha ancora qualcosa da vendere ha alzato i prezzi alle stelle. Chi può fugge, ma dopo la prima ondata di 31mila civili verso le zone governative e kurde non si sono registrati evacuazioni dai numeri simili. La Croce Rossa ha però condiviso ieri un piccolo successo: i 118 pazienti dell’ospedale Dar al-Safaa in città vecchia, appena riconquistata da Damasco, sono stati trasferiti ad ovest.

Non è migliore la situazione in Iraq dove la battaglia per Mosul, alla sua ottava settimana, porta con sé morte e distruzione. Per mano dello Stato Islamico che compie esecuzioni e stragi nella città irachena per fingere un’autorità al collasso, per mano della vendetta anti-sunnita di peshmerga e milizie sciite e per mano del governo. Mercoledì l’aviazione irachena (ma ci sono leader tribali che parlano di jet statunitensi) ha colpito tre volte un mercato nella città di Qaim, alla frontiera con la Siria: almeno 55 civili uccisi, tra loro 12 donne e 19 bambini.

«Il bombardamento ha centrato un mercato all’ora di punta – ha detto un portavoce del consiglio provinciale di Anbar – C’erano pensionati in fila per ritirare la pensione, gente che doveva ricevere il salario. Intere famiglie sono state distrutte». Il presidente del parlamento al-Juburi ha chiesto l’apertura di un’inchiesta.

Il comando generale iracheno, però, smentisce a metà: ieri confermava il bombardamento a Qaim, che – specificava – ha colpito un palazzo a due piani e i 25 foreign fighter dell’Isis all’interno, ma definiva propaganda islamista l’uccisione di decine di civili.