Lo scorso 20 settembre a Mosca, nella zona antistante il centro commerciale Moskva, si erano radunati un migliaio di migranti originari delle repubbliche centroasiatiche.

TADJKI, KIRGHIZI, UZBEKI, kazaki. Protestavano, dopo che in mattinata cinque loro compagni erano stati picchiati da vigilantes del centro. I cinque erano finiti all’ospedale e uno per alcuni giorni è rimasto in fin di vita con «gravi ferite al capo e la perdita di materia cerebrale», come registrava il bollettino medico.

I migranti volevano spiegazioni dal direttore del magazzino per quanto successo, ma alcuni si sono presentati all’appuntamento con spranghe di ferro devastando tutto ciò che c’era intorno.

Si sono scontrati con i vigilantes e la polizia è intervenuta in forze. 250 migranti sono stati portati in questura. Per alcuni è scattato l’arresto, per altri la deportazione nei loro paesi.

Il giorno dopo sul piazzale si sono radunati ancora centinaia di migranti: c’è stata un’assemblea improvvisata. Poi la polizia ha garantito che si sarebbe aperta un’inchiesta. Anche se i migranti sapevano benissimo cosa era successo: una prosaica storia di sfruttamento, ricatti e razzismo.

Igor ha 19 anni, è nato a Mosca da genitori tadjki. Quella sera era anche lui davanti al centro commerciale dopo il ferimento dei cinque connazionali. Avvertito da un tam tam via Whatsapp si è precipitato sul luogo dopo il lavoro.

«Cosa è successo? I vigilantes sono soliti prendere la vzyatka (bustarella) per far accedere a lavorare nel centro commerciale. I nostri fratelli si sono rifiutati di pagarla e per questo sono finiti all’ospedale». La mazzetta giornaliera è fissata in 400 rubli sui 1500 che gli operai guadagnano (circa 20 euro).

«QUANDO SONO ARRIVATO sul piazzale i più giovani erano arrabbiatissimi: armati di sbarre e di sassi volevano entrare nel centro e ammazzare tutti».

Che a Mosca la questione migranti sia esplosiva ormai non lo nega più nessuno. Il giorno dopo gli incidenti si è riunito il consiglio comunale di Mosca in seduta straordinaria.

«Che tornino a casa, abbassano i salari dei lavoratori russi», ora chiedono i comunisti e la destra di Zirinovsky. Ma il partito di Putin non è d’accordo: «Dobbiamo essere realisti. Senza gli immigrati la nostra economia si fermerebbe», dicono al quartier generale di Russia Unita.

SECONDO I DATI DEL 2016 vivono nella capitale e nella sua provincia oltre 450mila persone provenienti dalle ex repubbliche sovietiche del centro Asia. Le previsioni delle Onu parlano chiaro: in Tadjkistan la popolazione passerà da 8,7 milioni a 10,2 milioni entro il 2050, mentre quella russa scenderà dagli attuali 144 milioni a 131.

«Gli incidenti di quella notte non sono i primi e non saranno probabilmente gli ultimi», dice Kormat Sharipov, presidente dell’Associazione dei Migranti nella Csi: «Negli ultimi tre anni 17 migranti sono stati uccisi o gravemente feriti in situazioni come questa. E quella notte, dopo quanto accaduto al Moskva, qualcuno ha perso la pazienza».

In uno studio pubblicato da Sergey Ryazantsev membro dell’Accademia Russa delle Scienze, i migranti tadjki a Mosca spendono pochissimo per vitto e alloggio e spediscono alle famiglie gran parte dei guadagni. Il Tadjkistan sopravvive per le rimesse dei suoi cittadini che lavorano in Russia. Secondo Ryazantsev, si tratta di quattro miliardi di dollari l’anno, il 52% di tutto il Pil del Tadjkistan.

MOLTI TADJKI si trasferiscono a Mosca solo per lavori stagionali: in patria i salari medi si aggirano intorno agli 81 dollari al mese contro i 687 di Mosca. Qualche moscovita storce il naso vedendoli per le strade ma contribuiscono all’economia della città per l’11%, lavorano spesso in nero e sono caratterialmente miti.

«Non tornerei mai a Dushanbe. Non c’è lavoro e governano sempre gli stessi», sostiene Igor. Il Tadjkistan è retto da una sorta di monarchia repubblicana. Emomali Sharifovich Rahmon guida il paese ininterrottamente dal 1990 e alle elezioni partecipa solo il suo Partito Democratico Popolare.

I tentativi di colpo di Stato per destituirlo nel 1997 e nel 1998 sono falliti sembra grazie all’aiuto del Fsb russo e il Cremlino lo ha sempre considerato un alleato affidabile.

Nel paese la religione di Stato è quella musulmana, anche se sono presenti forti comunità cristiane e resistono importanti enclavi zoroastriste. Igor non frequenta la moschea e la sera, quando si vede con gli amici, beve birra: «Ma i miei genitori non lo sanno», dice sorridendo.

ANCHE L’INTEGRAZIONE resta limitata. Mentre gli uzbeki – anche grazie ad una grande tradizione gastronomica – a Mosca hanno aperto bar e ristoranti, i tadjki non sembrano essere portati per il commercio. Non resta che cercare lavoro nei cantieri di una Mosca che si sta rifacendo il trucco per i prossimi mondiali di calcio o sgobbare come facchini nei centri commerciali.

E poi c’è il capitolo ordine pubblico. Secondo i dati della polizia, nel 2016 dei 72mila reati compiuti in città circa 5mila sono attribuibili a cittadini provenienti dalle repubbliche asiatiche. Si tratta per lo più di piccoli reati contro la proprietà o risse in periferia tra ragazzi.

«I tadjki non sono mai entrati nel giro della grande criminalità organizzata che controlla droga e prostituzione», che resta appannaggio dei caucasici, ammettono alla questura di Mosca. Per quanto riguarda il terrorismo non sono molti i potenziali membri di cellule dell’Isis. Basti pensare che a Mosca, una città che ormai sfiora i 9 milioni di abitanti, gli individui a «rischio radicalismo islamico» non sono più di 5mila.

«La vera violenza è quella della polizia nei confronti delle nostre comunità», ha sostenuto in un’intervista a Radio Svoboda Kormat Sharipov. «Proprio la sera degli incidenti, mentre mi avviavo verso il mio ufficio, sono stato bloccato da due auto della polizia e mi hanno accusato di essere l’organizzatore degli incidenti». Sharipov, che collabora anche con l’Organizzazione dei Lavoratori Migranti, ha denunciato di aver subito in un solo anno ben 78 visite della polizia.

SEMBRA MANCARE da parte dell’amministrazione comunale una visione strategica su come gestire l’immigrazione. «Repressione, razzismo e super-sfruttamento non potranno essere per sempre la ricetta», conclude Sharipov.