È trascorso un anno dal tentativo del presidente Obama di bombardare la Siria di Assad. Oggi l’obiettivo è nella teoria diverso – i sanguinari miliziani dell’Isis – ma nella sostanza lo stesso. Così, come nel settembre 2013, a mobilitarsi è l’asse russo-iraniano. Nessun raid in Siria sarà accettato se mancherà l’ok di Damasco: questo il messaggio di Mosca e Teheran che vedono nei bellicosi pruriti statunitensi (e del Golfo) l’intenzione di rovesciare il governo alawita e strappare Baghdad dalle mani dell’Iran.

Dopotutto è chiaro – lo sottolinea la stessa intelligence Usa – che l’Isis non rappresenta una minaccia per gli Stati Uniti. Lo si vede negli obiettivi stessi di al-Baghdadi: a differenza di al-Qaeda, lo Stato Islamico intende creare un califfato in Medio Oriente dove dettare legge e gestire in tranquillità gli affari. Due giorni fa il gruppo islamista ha precisato che «non intende dichiarare guerra agli Usa». E poi ci sono i numeri snocciolati dalla Cia: i miliziani dello Stato Islamico sono tra i 20mila e i 31.500, un quarto dei presunti 100mila di cui parlavano un mese fa esperti iracheni. Tanti sì, ma abbastanza da minacciare, come dice Obama, New York?

Di nuovo, come dieci anni fa, il fronte anti-jihadista nasce con obiettivi diversi da quelli dichiarati. Ad ostacolarlo, Russia e Iran. All’indefinita strategia Usa Mosca ripropone lo stesso discorso: un’azione militare senza il lasciapassare dell’Onu «sarebbe un atto di aggressione». Accusa a cui è seguita a ruota quella dell’inviato russo alla Nato, Alexander Grushko: «Conosciamo le origini dell’Isis: la situazione di oggi è il risultato dei bombardamenti in Iraq, ma la Nato non lo vuole ammettere». Simile la reazione siriana, che da una parte avverte delle ripercussioni regionali se non ci sarà coordinamento con Damasco e dall’altra torna a proporre un’azione congiunta. Ieri Buthaina Shaaban, consigliere di Assad, ha ripetuto che la Siria deve e vuole essere parte integrante della coalizione globale perché «il terrorismo non è cominciato oggi in Siria, ma quattro anni fa».

Eppure i tempi sono cambiati: tra Obama e la Siria, sta la crisi ucraina e il dialogo sul nucleare iraniano. La stessa Teheran non rompe definitivamente con gli Usa, dopo lo storico riavvicinamento dell’ultimo anno: il presidente Rowhani ieri ha definito vitale una cooperazione internazionale contro l’Isis, seppure – ha aggiunto il ministro degli Esteri – sia piena di ambiguità perché dice di voler distruggere al-Baghdadi ma anche di continuare a finanziare i gruppi sunniti.

L’Iran non ha mai fatto mistero di ritenere l’asse sunnita arabo e il suo alleato Usa i responsabili della nascita dei gruppi jihadisti, strumentalizzati al fine di arginare l’influenza iraniana nella regione, soprattutto dopo la formazione di un governo a maggioranza sciita a Baghdad. L’occupazione dell’Iraq – come spiega un rapporto dell’Us Joint Special Operations University – si fondò sull’antica strategia del divide et impera: la Cia rifornì di armi i gruppi qaedisti perché mettessero i bastoni tra le ruote alla neonata amministrazione sciita (nonostante fosse stata posta lì da Washington) per indebolirla e meglio gestirla.

Una strategia vincente che ancora oggi produce risultati: in Iraq si sta consumando una guerra civile. Negli ultimi due giorni sono stati oltre dieci gli attentati a sud di Baghdad, nelle comunità sciite di Basra, Najaf e Karbala. Lo stesso è stato fatto in Siria, dove già prima delle proteste contro Assad, nella primavera del 2011, Stati uniti e alleati finanziavano e addestravano gruppi di opposizione, non solo moderati. Il sito israeliano di intelligence Debkafile elenca gli aiuti militari e medici forniti da Israele, Giordania e Usa ai ribelli dell’Esercito Libero Siriano, sapendo bene che molti di questi finivano nelle mani dei qaedisti del Fronte al-Nusra e, più tardi, in quelle dell’Isis.

Poco importa, si prosegue per la stessa via: al meeting di Jeddah giovedì i paesi arabi presenti non hanno discusso delle misure anti-Isis, quanto del rafforzamento delle opposizioni siriane. Così Kerry prosegue il tour mediorientale per strappare di più: ieri era in Turchia, che in Arabia Saudita ha fatto un passo indietro e offerto la base di Incirlik solo per fini umanitari. Nelle stesse ore il presidente francese Hollande visitava Baghdad: Parigi – che ospiterà lunedì una conferenza internazionale anti-terrore – offrivà assistenza militare. Armi ai peshmerga, ma non raid aerei.