Altri quattro civili morti in Ucraina orientale, a seguito dei feroci combattimenti che si svolgono a Donetsk. È lì, nella ormai conclamata «roccaforte dei ribelli», che si sta svolgendo la battaglia forse decisiva per le sorti del conflitto.
A Kiev – invece – la tempesta è politica: dopo le dimissioni del premier Yatseniuk e del responsabile della sicurezza Parubiy, i neonazi di Majdan si rifanno sentire. Dopo gli scontri e la protesta di due giorni fa dell’estrema destra coadiuvata da preti armati di spranghe e molotov tutti contro gli addetti alle pulizie della piazza che dovevamo rimuovere le «vestigia» del movimento di Majdan, ieri è anche esploso un ordigno (in serata l’attentatore è stato arrestato). Il premier uscente ha inoltre tenuto una conferenza stampa durante la quale ha annunciato le contro-contro misure alle sanzioni russe. Dopo la decisione di Mosca di reagire alle punizioni economiche sancite da Washington e Bruxelles, Kiev ha stabilito sanzioni «contro 172 persone e 65 enti, per lo più russi, che costeranno all’Ucraina circa sei miliardi di dollari l’anno».

Il prezzo di Yatseniuk

Il premier si è detto consapevole «di quale prezzo dovrà pagare l’Ucraina, ma siamo pronti a pagare per la nostra indipendenza». Tutto più semplice con il sostegno militare Nato, il prestito europeo (già consegnata una tranche, senza che sia stata fatta chiarezza sulla fine di quei soldi) e soprattutto quello del Fondo monetario internazionale. Quest’ultimo però ha un prezzo non meno gravoso: riunificare il paese.
Da questo semplice dettame, sono conseguite manovre che hanno affossato la già precaria economia del paese, mettendo il popolo alla fame, senza cure mediche, con nuove tasse che finanziano la «necessaria» operazione militare. Tra le sanzioni previste da Kiev per le persone colpite, ci sono «il divieto di entrare in Ucraina, il congelamento di ogni attività e il divieto di far transitare «risorse» attraverso il territorio della repubblica ex sovietica». Un’eventualità che potrebbe costare caro all’Europa (ma guarda caso non agli Usa): i paesi europei – infatti – attraverso i gasdotti ucraini importano circa metà del metano che acquistano dalla Russia. Kiev potrebbe inoltre vietare il transito agli aerei russi.
Mosca, dal canto suo, non sta a guardare: nei giorni scorsi – il 3 agosto – 400 soldati dell’esercito ucraino si erano «arresi», sconfinando in Russia. E ieri il Cremlino ha deciso il pugno duro, chiedendo l’arresto di cinque ufficiali. L’accusa è aver commesso crimini di guerra in Ucraina orientale, incluso l’uso di armi proibite. Ieri mattina il ministro degli Esteri di Kiev, Pavlo Klimkin, annunciando il ritorno in patria di altri 48 soldati ha precisato che «altri cinque» si trovano in Russia, ma saranno rimpatriati «presto».

«Uso di armi proibite»

I militari ucraini avrebbero ammesso l’uso di armi «pesanti» nel conflitto a ovest (il servisio della Cnn aveva anche dimostrato l’uso di missili balistici da parte di Kiev, ma stando a quanto trapela dai media russi, l’accusa nei confronti dei soldati potrebbe riguardare l’utilizzo di armi al fosforo), ma hanno negato di averle usate contro i civili.
L’inchiesta ha dimostrato che sarebbe stata proprio la «72a brigata agli ordini agli ordini del comandante Voytenko» a bombardare Krasnopartizanskaya, Krasnodon e Lugansk con «armi offensive pesanti con effetto indiscriminato, ferendo e uccidendo almeno 10 civili e distruggendo almeno 20 case e infrastrutture». Questi dati sarebbero confermati dalla testimonianza di altri militari ucraini che hanno prestato servizio nella squadra e sono infine arrivati nel territorio russo.

Made in Italy in pericolo

E naturalmente ci sono le reazioni alle contro misure russe, annunciate due giorni fa, a seguito delle sanzioni di Europa e Stati uniti. In Italia l’unico spavaldo – as usual – è il presidente del consiglio Matteo Renzi. Perché le sanzioni decise dal governo russo sull’importazione di prodotti alimentari europei e statunitensi, preoccupano un po’ tutti, provocando «un danno gravissimo» a particolari settori dell’economia italiana. Intanto ai produttori di Grana Padano, che ieri per bocca di Stefano Berni, direttore generale del Consorzio del formaggio Dop tra i più consumati al mondo, con 4 milioni e 500mila forme l’anno, ha fatto sapere che «negli ultimi dieci anni in Russia abbiamo investito oltre 2 milioni di euro per la promozione e, partendo da zero, siamo riusciti ad arrivare a esportare, nel 2013, 34 mila forme. In Russia non c’è ancora una cultura radicata sul consumo di grana padano e ora si rischia di vedere vanificato tutto il nostro lavoro». Stessa situazione per un altro dei tanti decantati marchi del «made in Italy», ovvero il prosciutto di Parma: «pur non essendo ancora un grande mercato di sbocco per noi – ha spiegato l’azienda in una nota – la Russia è comunque il Paese con maggiori prospettive di tutti i Brics».
E infine, ieri, la denuncia molto preoccupata per gli sviluppi in piena estate della guerra delle sanzioni anche della Coldiretti, secondo la quale «dodicimila quintali di pesche destinate alla Russia» sono stati respinti alle frontiere per il blocco alle importazioni deciso da Putin. «La frutta – spiega la Coldiretti piemontese – era caricata su una sessantina di camion frigo, partiti dai magazzini».