Ancora una volta giustizia non è stata fatta in Guatemala. L’ex dittatore Efraín Ríos Montt non è morto scontando in galera una condanna per genocidio, ma nel suo letto, stroncato da un infarto a 91 anni il giorno di Pasqua, circondato dall’amore dei suoi cari e, ha assicurato il suo avvocato, «con la coscienza pulita».

SALITO AL POTERE con un colpo di Stato nel 1982 e rovesciato 17 mesi dopo da un successivo golpe – i 17 mesi più violenti del conflitto armato interno che, dal ’60 al ’96, ha ricoperto di sangue e di orrore il Guatemala – Ríos Montt avrebbe dovuto essere in prigione già dal 10 maggio 2013, quando era stato riconosciuto responsabile di 15 massacri nel dipartimento del Quiché, in cui avevano perso la vita 1.771 indigeni maya-ixil, e condannato a 80 anni di carcere. Una sentenza accolta da un liberatorio applauso, al grido di «Si! Hubo genocidio».

DIECI GIORNI DOPO, tuttavia, la Corte Costituzionale, sotto le pressioni dell’oligarchia, aveva dichiarato nulla la sentenza e ordinato la ripetizione di parte delle udienze, finché la Corte d’Appello non aveva disposto la cancellazione dell’intero processo, condannando nuovamente all’oblio i massacri.

POI, NEL 2015, L’APERTURA di un nuovo processo, che si stava svolgendo a porte chiuse dopo la diagnosi di demenza senile formulata nei suoi confronti. Ora, però, Ríos Montt non dovrà più preoccuparsene. Che la terra non gli sia lieve.