«Quando si spara, si spara. Non si parla». Anche il Brutto se ne è andato. Il Brutto è solo uno, Eli Wallach, nato 98 anni fa a Brooklyn, popolare in tutto il mondo per il personaggio di Tuco Ramirez nel capolavoro di Sergio Leone Il Buono, il Brutto, il Cattivo. Ma è stato anche Calvera, il bandito messicano di I magnifici sette di John Sturges, Don Altobello, vecchio boss non così simpatico per Il Padrino III di Francis Coppola, Girolamo Gianna in Squadra antimafia di Bruno Corbucci con Tomas Milian, il protagonista del meraviglioso Crimine silenzioso di Don Siegel.

Un cattivo sempre ghignante e dalla battuta facile in qualcosa come 167 fra film e telefilm in una carriera lunghissima che inizia alla fine degli anni’40 fra teatro, tv e cinema subito dopo aver frequentato l’Actor’s Studio, e termina pochissimi anni fa con le sue ultime apparizioni eccellenti in film come Mystic River del vecchio amico Clint Eastwood, L’uomo nell’ombra di Roman Polanski e Wall Street- Il denaro non dorme mai di Oliver Stone.

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Una carriera incredibile che dimostra il grande talento di un attore che non si è mai limitato a ripetere un cliché, a fare da pure caratterista, ma ha sempre saputo adattarsi al genere, agli attori grandi e piccoli che si trovava davanti, da Marlon Brando, Peter O’Toole a Fabio Testi e Franco Nero, per costruire dei personaggi sempre con una loro personalità, una verità, dei cattivi che ti potevano uccidere facendoti ridere, pronti a qualsiasi ribaltamento di copione anche col cappio al collo.
«Chi frega Tuco e non lo uccide, vuol dire che di Tuco non ha capito niente». Del resto era l’unico attore ebreo newyorkese costruito col metodo di Strasberg e Kazan che potesse fare l’italo-americano o il messicano dei nostri spaghetti western.

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L’unico che potesse passare dall’incredibile esordio con Elia Kazan in Baby Doll, a I quattro dell’Ave Maria di Giuseppe Colizzi. Dividere la scena con Clark Gable e Marilyn Monroe in Gli spostati di John Huston, con Peter O’Toole in Lord Jim di Richard Brooks, e insegnare a muoversi sullo schermo al nostro grosso Bud Spencer, divertirsi con Sergio o Bruno Corbucci, con Maurizio Lucidi o Paola Cavara nel nostro cinema di genere, che gli aveva dato, anche più di Hollywood, una status da grande coprotagonista con il successo planetario di Il buono, il brutto, il cattivo e le sue battute più celebri: «Ehi, Biondo, lo sai di chi sei figlio tu? Sei figlio di una grandissima putt aa-ah-AH!!!», «Sto cercando un mezzo sigaro, con dietro la faccia di un gran figlio di cagna, alto, biondo e che parla poco!». Nessuno le sapeva dire come lui. Sergio Leone lo sapeva.

Come sapeva che tipo di cattivo comico potesse nascere dalla sua interpretazione. «Eli Wallach», diceva Leone, «l’ho preso per un gesto che fa nella Conquista del West, quando scende dal treno e parla con Peppard. Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.»

La prima volta che lo chiamano per un provino con Leone risponde. «Un western italiano, non ne avevo mai sentito parlare, suona come una pizza hawaiana. Beh, allora incontro Sergio, che non parlava inglese. Disse in francese: ’Ti vorrei nel mio film’. Pesava 290 libbre e disse: Ti farò vedere qualcosa. Vuoi vedere un piccolo pezzo del mio film?». Leone gli manda così due pagine di sceneggiatura. Wallach accetta e va a scegliere gli abiti al negozio Western Costume di Los Angeles insieme a Henry Hathaway. Li porta sul set e Sergio Leone rimane incantato. Più tardi, Leone dirà: «Tuco rappresenta, come più tardi Cheyenne, tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta.

Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impiegato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito». La scena che Eli Wallach preferiva del suo Tuco è quella dove viene impiccato per la terza volta. «Stavo seduto su questo cavallo, le mie mani legate dietro la schiena, e pensavo: Che cosa sto facendo nel sud della Spagna seduto su un cavallo? Io potrei essere da qualche parte del mondo a interpretare Cecov». A quel punto una piccola signora lo guarda, lui la riguarda, digrigna i denti e gli esce un Grrr… molto comico, molto umano. Tra i ’60 e ’70 Eli Wallach si mosse facilmente tra l’Italia e l’America. Lo troviamo in Come rubare un milioni di dollari e vivere felici di William Wyler, in L’oro di MacKenna di J.Lee Thompson, in Il cacciatore di taglie di Buzz Kulik.

Fra tanti ruoli gli unici che lo avvicinarono alle sue origini di ebreo polacco furono Il romanzo di un ladro di cavalli di Abraham Polonsky e The Angel Levine di Jan Kadar. Ma ha sempre funzionato meglio come italo-americano. Francis Coppola lo vorrà come cattivo pazzo per l’opera e per i cannoli siciliani in Il Padrino III, unico in grado di poter ripetere le grandezze da Actor’s di Marlon Brando e Lee Strasberg nei film precedenti. La sua morte col cannolo avvelenato è magistrale. Anche lì c’è tutto, commedia e noir, Leone e Kazan. D’altra parte, come ben spiegava il Brutto: «Chi frega Tuco e non lo uccide, vuol dire che di Tuco non ha capito niente».