Era stato lo zar Nicola I a coniare la famosa espressione, «il malato d’Europa», riferendosi all’impero ottomano, da sei secoli uno sconnesso insieme di regioni gravitanti attorno al Mediterraneo orientale, crogiuolo di razze e religioni diverse, da tempo afflitto da una incurabile malattia centripeta. Già evidente dalla metà del XIX secolo, la disgregazione dell’impero sembrò sul punto di realizzarsi tra Otto e Novecento per poi avvenire di fatto solo con la sconfitta, a fianco della Germania, nella prima guerra mondiale. E tuttavia, come fosse una fenice, la morte dell’impero si trasmutò nella nascita di un nuovo stato nazionale, la repubblica turca: è questo il tema del poderoso affresco diplomatico-militare disegnato da Sean McMeekin, Il crollo dell’Impero ottomano La guerra, la rivoluzione e la nascita del moderno Medio Oriente, 1908-1923 (traduzione di Daniele Cianfriglia e Chiara Veltri, Einaudi, pp. X-552, euro 34,00).

Chi si fosse appassionato alle storie venute fuori nel centenario della Grande guerra, troverà in queste pagine un utile complemento all’apocalittico scenario del più noto fronte occidentale, quell’orrendo conflitto di trincee contrapposte che costò milioni di morti, scandito dai nomi di luoghi divenuti tristemente famosi: Verdun, la Marna, la Somme e poi, naturalmente, Caporetto e Vittorio Veneto. Nel saggio di McMeekin, scoprirà gli scontri avvenuti nella campagna di Gallipoli, sul Caucaso, in Persia, in Mesopotamia (l’attuale Iraq), in Palestina. L’autore ci porta, con una prosa sostenuta da un bello stile, attraverso gli intrighi delle cancellerie, le strategie geopolitiche e le alternative tattiche in campo, proponendo un esempio molto efficace di storia politico-militare tradizionale, che appare al tempo stesso molto sicura e molto incerta. Molto sicura quando gli tocca di dar conto delle diverse opzioni belliche in gioco. Molto incerta ogni volta che i problemi sul tappeto fuoriescono dalla logica strettamente diplomatica e militare.

Rivalutata la battaglia di Dilman
Il luogo da cui McMeekin preferisce guardare gli avvenimenti è infatti il tavolo sul quale si pianificano, si confrontano e si scontrano diverse alternative di politica internazionale e bellica. Con la sua ricostruzione puntuale, McMeekin segna vari punti a suo favore: per esempio mostrando in modo convincente come il famoso accordo anglo-francese per la spartizione delle aree di influenza in Asia minore fosse stato in realtà avviato con la partecipazione assai influente, a fianco dei celebri Sykes e Picot, dell’ultimo ministro degli esteri zarista, Sergej Sazonov, vero ideatore del primo progetto di suddivisione dei territori ottomani; e come in realtà la tanto discussa cartografia del Medio Oriente novecentesco sia stata disegnata nella conferenza internazionale di Losanna, nel 1923, seguita alla vittoria della neonata repubblica turca di Mustafa Kemal contro l’invasione greca e la sua «perfida» protettrice, la Gran Bretagna. E sono molti, peraltro, anche gli altri passaggi in cui il libro è illuminante: nelle pagine, per esempio, che illustrano il ruolo decisivo delle corazzate o delle ferrovie (la mitica Berlino-Baghdad) o ancora nella denuncia della stoltezza dei comandi alleati nell’insistere nella disastrosa campagna di Gallipoli.

Interessante è anche la rivalutazione di quanto sia stata importante la trascurata battaglia di Dilman, del 15 luglio 1915, nella quale truppe russe sostenute da reparti armeni dell’armata del Caucaso, cui si era aggiunto un contingente volontario reclutato nell’Armenia turca, sconfissero le truppe ottomane, dando così avvio alla psicosi anti-armena. Tuttavia, la bussola che orienta le affermazioni di McMeekin – il vecchio buon senso comune – sembra smarrirsi di fronte alla complessità di quella inumana miscela di tragiche deportazioni forzate nel deserto interno siriano e di massacri indiscriminati conosciuto come «genocidio armeno», una tragedia che fuoriesce largamente dal quadro delle opzioni geopolitiche.

Allo stesso modo, tutta la trattazione della rivoluzione del 1908 e del conseguente avvento al potere dei Giovani Turchi si sarebbe forse avvantaggiato di un maggior respiro. Come ricordò nelle sue memorie Mustafa Kemal «i rivoluzionari stavano seduti attorno a un tavolo, bevendo raki e birra. I loro discorsi erano per lo più di stampo patriottico. Parlavano di fare la rivoluzione. La rivoluzione, dicevano, ha bisogno di grandi uomini. Tutti volevano essere grandi uomini». Di questi discorsi, di queste tensioni, nel libro c’è poco, così come – a fronte della brillante trattazione delle storiche mire che i russi coltivavano circa l’ affaccio al Mediterraneo – il racconto dell’irruzione della rivoluzione bolscevica del 1917 sembra trattato alla stregua di un fortunato accidente favorito dall’aiuto dei servizi di intelligence tedeschi, come fosse il sottoprodotto di un grande gioco geopolitico decisivo per tenere ancora in vita per qualche mese il moribondo impero ottomano.

Lawrence d’Arabia ridicolizzato
Il realismo pragmatico e talora un po’ cinico di McMeekin risalta anche quando, animato da ottime intenzioni, sottolinea come le manovre britanniche nei confronti dello sceriffo della Mecca Al Husayn o dell’emiro Abibullah in Afghanistan fossero sostenute da lauti versamenti in denaro. O quando demitizza la figura di Lawrence «d’Arabia», accorto costruttore della sua propria leggenda.
In questi casi, infatti, McMeekin finisce per esagerare, ridicolizzando ad esempio il tentativo di Lawrence di risvegliare in funzione anti-ottomana il nazionalismo arabo. Probabilmente lo vizia il misurare questi eventi relativamente alla efficacia bellica immediata: un esempio sta nella sua esposizione dell’altro tentativo, quello del sultano Abdul Hamid di rivendicare il proprio ruolo di califfo, teorizzando e praticando il pan-islamismo in un impero frastagliato ma in cui la componente musulmana era in costante crescita: ne costituiva infatti un collante e anzi il principale fattore possibile di coesione. Il tentativo sarebbe stato proseguito, con l’aiuto propagandistico e finanziario tedesco, anche dal successore Mehmed V, il sultano-fantoccio dei Giovani Turchi, che proclamò allo scoppio della guerra il Jihad contro le potenze dell’Intesa. La bandiera sacra dell’Islam venne allora fatta arrivare apposta dalla Mecca. Quando giunse a Gerusalemme, attorno al vessillo verde si creò un corteo spontaneo animato da «giubilo indescrivibile e radioso entusiasmo», ma questo sommovimento ideale trova scarsa eco nelle pagine del libro.

Nessun doppio bluff
La proclamazione della guerra santa aveva tentato, fallendo, di far insorgere i cento milioni di sudditi musulmani dell’impero britannico, sparsi dall’Egitto al Pakistan: uno scacco parallelo allo scarso esito che avrebbe avuto la rivolta araba (ma anche confessionale) dello sceriffo della Mecca contro la Sublime Porta, volta a delegittimare il ruolo di califfo del sultano di Istanbul, anch’esso attivamente sostenuto dall’esterno, e cioè stavolta dalle potenze dell’Intesa. Non si trattò, tuttavia – come McMeekin sembra pensare – di «un doppio bluff». L’importanza di questi tentativi va infatti misurata su altri tempi e su orizzonti diversi da quelli della guerra in atto in quel momento. La storia, insomma, con le sue conseguenze impreviste e la sua inconsapevole ironia, è qualcosa di più complesso di una tragica e costosa, ma in fin dei conti rassicurante, partita a poker.