A vedere le foto che riproducono scene dei film di Vera Chytilová non si può certo immaginare che quella fissità che pure incuriosisce per lo sberleffo che contiene contenga movimenti frenetici, non solo per il ritmo ma anche per il pensiero. È scomparsa mercoledì, a 85 anni, Vera Chytilova, era uno dei geni del cinema, per il pubblico italiano è un nome per lo più sconosciuto. Eppure negli anni sessanta era straordinariamente famosa, nome di punta di una intera corrente osannata da critica e pubblico, la Nová Vlná, la nuova onda cecoslovacca, regista capace di esprimere un concetto di femminismo legato alla libertà di espressione che non aveva bisogno di parole. Restano ancora vivide nel ricordo le spose che si perdono i veli da sposa, le ragazze metropolitano che se ne infischiano degli appuntamenti, delle cerimonie, della buona educazione e anche del consumismo socialista. Era nata nel ’29 in Moravia (il «sud», il buon vivere, i vigneti), aveva fatto l’indossatrice per mantenersi agli studi fino alla scuola di cinema, la Famu, guidata da un eccellente maestro come Otakar Vavra che non solo insegnava a saper vedere e ascoltare, ma ha plasmato la classe di cineasti più interessante di quegli anni. Lei era considerata dai suoi stessi compagni «la più brava di tutti», come ci aveva detto Jiri Menzel che pure aveva vinto un Oscar con Treni strettamente sorvegliati, fin dal suo esordio. Hrabal chiese prima a lei di fare il film, a lei interessava, i genitori gestivano il ristorante di una piccola ferrovia, poi decise che non coincideva con la sua visione poetica.

Di carattere non malleabile, decisa e tagliente come lo stile dei suoi film ci sembrò quando la incontrammo per la prima volta nel ’78 quando i giornalisti stranieri erano presenza sgradita nel paese (anche se di giornali comunisti) ma noi eravamo decisi a esplorare questo meraviglioso universo congelato che era stata la Nová Vlná, di cui non si era mai più parlato dopo gli anni ruggenti e che si poteva solo leggere sui libri. Breve esplosione indelebile di cinema con esponenti famosi che uscirono per sempre dal paese come Milos Forman, altri costretti dagli eventi del ’68, per non parlare di quelli che scomparvero proprio nei giorni dell’invasione. Ma la maggior parte dei cineasti restò nel paese, tra loro Vera e su di loro calò il silenzio, il gelo. Per loro fu impossibile lavorare per anni. L’immagine che restava di questi registi dalla carriera spezzata è fissata nella nostra mente con le pile di sceneggiature mai fatte, gli oscuri timori (ma Vera parlava senza problemi), le biografie manomesse che ci dava la cinematografia ufficiale, fino al rifiuto di farci incontrare alcuni di loro («Schorm non si può incontrare, è un regista di teatro non di cinema»).

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Tra le pochissime che a quell’epoca svolgevano la professione di regista (Marta Mezsaros in Ungheria, Agnès Varda in Francia) Vera Chytilova è stata la prima a consegnare alle nuove generazioni immagini di spavalderia. Lei era la più irriverente, una caratteristica comune ai ragazzi della nuova onda (ed anche per questo fu stroncata nel massimo nel suo splendore, per il rifiuto di sottomettersi alle regole e l’ostinazione a parlare di argomenti proibiti anche se in modo genialmente allusivo). Avevano tutti meno di trent’anni i ragazzi della scuola di cinema Vera, Menzel, Schorm, Jires, Nemec quando chiesero allo scrittore outsider Bohumil Hrabal a cui era vietato pubblicare, di poter trarre ispirazione dai suoi racconti per comporre un lavoro collettivo intitolato Sedmikransky (Perline sul fondo, ’65), poi superproibito dopo il ’68 e mai più visto se non all’apertura dei cellari. Grazie alla curiosità e alla vaga conoscenza dei titoli originali, in una edizione del festival di Karlovy Vary della metà degli anni ottanta entrammo in una stanza chiusa non indicata dal programma dove potemmo vederlo con altri film appena scongelati tra l’emozione visibile dei pochi presenti e di alcuni autori che sembravano aver visto fantasmi.Il suo episodio intitolato Automat Svet (qualcosa come: Snack Bar) era lo struggente e inaspettato vagare solitario nella notte della sposa dopo la festa di nozze, una tra i personaggi inaccettabili messi in scena dagli altri giovani registi come giovani zingare o anziane streghe, o perditempo accorsi a vedere corse motociclistiche, la festa dell’humour e della condizione umana. La sua immaginazione scatenata faceva compiere alle persone che vedeva intorno, soprattutto se donne, qualcosa che suggerisse una scossa, un cambiamento: la studentessa che cercava di diventare indossatrice senza riuscirci Strop (Il soffitto), suo film di diploma, considerato il manifesto della Nová Vlná, Pytel blech (Un sacco di pulci, ’62) la vita ripetitiva di un’operaia, l’inevitabile inquadramento in una struttura sociale, O necem jiném (1963, Qualcosa d’altro), la condizione di due donne. Uno stile documentario fatto senza macchine a mano, senza insonorizzazione, con la pura abilità e l’affinità con i direttori della fotografia (ne sposerà uno famoso, Jaroslav Kuchera). Nessuna autorità politica avrebbe potuto cancellare l’umorismo, lo scompiglio che creavano le due ragazze praghesi di Sedmikrasky (Le Margheritine, ’66) che sconvolgono il mondo metropolitano con cui vengono a contatto, mostrando perfino le assurdità del consumismo socialista oltre che dell’autoritarismo, dell’ufficialità opulenta finendo per distuggere un grande banchetto di gala.

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In una società dove ogni persona doveva stare al suo posto l’apoteosi del finale era un vero e proprio grido di guerra. Le Margheritine fu nel pacchetto di film cechi acquistati e distribuiti anche in Italia, per la loro trasgressione, ma soprattutto per gli abiti spesso discinti delle protagoniste. Del ’69 è Mangiamo frutti all’albero del paradiso, poi il lungo periodo di silenzio fino al ’76 con Il gioco della mela e nel ’78 Kalamita, presentato a Karlovy Vary, ma se ricordiamo bene depistando i critici, tanto il film era evocativo del lungo periodo di gelo: chi ha visto il blockbuster Snowpiercer forse non sa che già Vera Chytilova aveva intrappolato in un convoglio ferroviario bloccato dal gelo (per tutti si trattava della normalizzazione) un’intera società, dove un ferroviere, chiaro riferimento al film di Menzel si dava da fare come poteva, testimone fuori dagli schemi.

Poi, a distanza uno dall’altro realizza una serie di film sulla vecchiaia sotto forma di commedia, presa in giro di vecchi playboy. E incontra il suo vecchio compagno di scuola in Chytilova versus Forman, gli pone tutte le possibili domande su vita, cinema e sperimentazione, amaro dialogo per una geniale cineasta bloccata nel pieno della sua creatività, mentre Forman esplodeva internazionalmente. A Karlovy Vary nel 2008 si poteva vedere un suo fantastico spot: il Globo di cristallo che gli era stato attribuito infine alla carriera gli cadeva e si spezzava e lei cercava di rimetterlo insieme con del nastro adesivo, magnifica prova di amara ironia.