Un anno fa piazza Tahrir era occupata permanentemente dai sostenitori di Morsi che chiedevano di riconoscere la sua elezione. Ma oggi in piazza c’è chi della Fratellanza non vuol più sentir parlare. Un anno fa, in queste strade si chiedeva a gran voce che il nuovo presidente avesse «autorità» e l’abrogazione della dichiarazione costituzionale aggiuntiva che conferiva all’esercito il veto sulle decisioni presidenziali. Da allora la Fratellanza ha occupato tutte le istituzioni, dal governo alla Camera Alta, che ha il potere legislativo, dall’Assemblea costituente al sistema giudiziario e dell’informazione.

L’autorità della Fratellanza non è limitata solo perché non ha ancora ottenuto il pieno controllo del parlamento ma è completa per un accordo che dal 28 gennaio 2011 ha suggellato il patto tra islamisti ed esercito, un’intesa che forse esisteva già da tempo. Quando si invoca il ritorno dell’esercito come massimo dei mali si dimentica spesso che i militari non sono mai andati via e continuano a dettare l’agenda in politica estera ed interna. Quando si assolve la classe dirigente islamista, si dimentica quanto questi 12 mesi siano stati sanguinosi e ingenerosi con le richieste rivoluzionarie. Quest’occupazione è avvenuta lentamente. Secondo rivelazioni di stampa, il vice-presidente, deceduto negli Stati uniti, Omar Suleiman era stato indicato inizialmente dai Fratelli musulmani come possibile candidato alle presidenziali.

Ma una volta al potere, Morsi non ha concesso nulla ai movimenti secolari, neppure l’esecutivo. Non solo, ha compiuto l’atto di più evidente rottura con le richieste di democrazia e rappresentatività promulgando un decreto, nel novembre scorso, che ha di fatto esteso senza appello i suoi poteri di controllo e censura. Da quel momento, la Fratellanza ha imposto una Costituzione vaga e generica che apre alle discriminazioni delle minoranze, delle donne e mette in forse i diritti dei lavoratori e della stampa.
Lo stato ha poi fallito nella ricerca della verità sulle responsabilità del vecchio regime nella morte dei manifestanti durante l’occupazione di piazza Tahrir (gennaio-febbraio 2011) e nel massacro di Port Said (febbraio 2012). Anzi, la Camera Alta ha promosso leggi liberticide, come il provvedimento che mette il bavaglio alle ong, colpendo direttamente la società civile egiziana. E le norme per le liberalizzazioni e lo sviluppo della finanza islamica, non impedite da Al Azhar, che si accingono ad attrarre capitali dal Qatar e a svendere il patrimonio pubblico.

Questo ha generato un senso profondo di delusione nei giovani che hanno iniziato a raccogliere firme (forse oltre 20 milioni) per chiedere elezioni anticipate al di fuori dei tradizionali schemi di un’opposizione politica che appare altrettanto corrotta, incapace e divisa. Nonostante ciò, ieri il procuratore generale, nominato da Morsi, ha riaperto il caso che vede i tre leader Moussa, Baradei e Sabbahi accusati di complotto per un colpo di stato mentre i deputati di opposizioni si dimettevano dalla Shura.

Non solo, la politica della Fratellanza ha contribuito a diffondere un profondo anti-americanismo. Talmente radicato da portare alle reazioni iconoclaste per il film su Maometto, del settembre scorso, alla caccia allo straniero e all’uccisione di Andrew Potcher, 21enne, insegnante e fotoreporter accoltellato negli scontri di Alessandria ieri, insieme a un bambino di 14 anni. E così gli Usa hanno evacuato il personale non essenziale in Egitto e messo in allerta 200 dei loro marines stazionati in Italia, a Sigonella, e in Spagna.
Di sentimenti anti-americani sono motivati sia gli islamisti sia i giovani delle opposizioni. I primi per una retorica anti-americana che nei fatti si trasforma in totale assoggettamento a Washington. I secondi per una forma di diffidenza verso un paese che ha favorito l’impasse attuale. Il presidente Barack Obama ha esortato ieri i sostenitori del presidente Morsi e dell’opposizione a mostrare moderazione e avviare un «dialogo costruttivo». Ma sembra un impossibile confronto tra sordi. E se gli islamisti vivono il sogno del potere, perseguito per 80 anni, tutto questo ha generato tra i giovani di Tamarrod (ribelli) un incubo in cui l’Egitto è precipitato, trasformando la rivoluzione in un’illusione costruita dai media internazionali.

Il Sinai è completamente fuori controllo: un ispettore del ministero dell’Interno egiziano è stato ucciso ieri da un gruppo di uomini armati a el-Arish. Mentre, durante le manifestazioni, una granata fatta in casa è esplosa nella città portuale di Port Said causando un morto. Sette sono i morti e 616 i feriti degli scontri dall’inizio delle violenze, lo scorso mercoledì. Secondo il centro per la difesa dei diritti della donna, Nazra, cinque donne sono state violentate in piazza Tahrir venerdì, tra queste una giornalista olandese. Mentre un gruppo di cinque volontari italiani della Onlus di Genova Music for Peace, diretti verso Gaza, sono stati bloccati ad Alessandria. C’è poco da festeggiare in questo anniversario e molto da recriminare. La corsa della comunità internazionale a gioire della rivoluzione egiziana, non abbandonando le antiche logiche coloniali, la stigmatizzazione e la drammatizzazione dei movimenti di strada da parte dei media locali, l’attivazione dei gruppi salafiti e l’assenza di polizia hanno fatto il resto. Sembra tutto da rifare.