Un’inchiesta «accurata e trasparente» è quello che chiedono le Nazioni unite a 48 ore dalla morte dell’ex presidente egiziano Mohamad Morsi. La richiesta è dell’Alto commissariato ai diritti umani che ci tiene a specificare, attraverso il suo portavoce Rupert Colville, che a gestirla dovrà essere «un’autorità indipendente da quella che lo ha detenuto».

Al centro dell’indagine, aggiunge l’ufficio Onu, dovranno esserci le condizioni di detenzione del leader dei Fratelli musulmani, in isolamento quasi totale (23 ore al giorno) durante i sei anni trascorsi nel famigerato carcere di Tora. Di certo all’inchiesta – se mai si farà – mancherà un pezzo importante: un’autopsia indipendente.

Perché di esami sul cadavere ne è stato fatto solo uno, dalla procura generale egiziana, a porte chiuse. E Morsi è stato seppellito in fretta e furia dodici ore dopo il decesso.

Difficile schermarsi dietro la tradizione islamica e i tempi stretti tra morte e sepoltura: qui a spegnersi è stato un ex presidente, durante un’udienza in tribunale e dopo quasi sei anni di carcere per motivi politici.

Eppure Il Cairo del presidente-golpista al-Sisi (colui che da ministro della Difesa ha prima deposto Morsi per poi prenderne il posto e avviare una delle peggiori stagioni della storia moderna del paese) risponde all’Onu. Lo fa con il portavoce del ministero degli Esteri, Ahmed Hafez: «(L’Onu) tenta intenzionalmente di politicizzare un caso di morte naturale, un salto a fragili conclusioni che non si basano su nessuna prova».

Il governo egiziano risponde all’Onu perché, sorprendentemente, è la sola istituzione internazionale ad aver espresso un dubbio in merito al decesso. Dai governi occidentali, alleati del regime egiziano, non è pervenuta parola.

Tutto tace, nonostante non siano affatto risibili le responsabilità dei paesi europei e degli Stati uniti nel muro di omertà e impunità che protegge al-Sisi. Che se può permettersi 60mila prigionieri politici, sparizioni forzate acclarate e decessi in carcere è perché nessuno gliene ha ancora chiesto conto.

E alla fine il solo ad alzare la voce è il presidente turco Erdogan, non certo per spirito umanitario visto il suo di regime, ma per ragioni squisitamente politiche. Da leader di un partito, l’Akp, parte della rete regionale della Fratellanza Musulmana ieri durante un comizio a Istanbul in vista delle ri-elezioni di domenica ha apertamente accusato Il Cairo di aver ucciso Morsi e promesso di portare la questione al G20 giapponese di fine giugno:

«Seguiremo la cosa e faremo quanto necessario perché l’Egitto sia perseguito in un tribunale internazionale». Anche qui risponde Il Cairo, sempre con Hafez, rigirando le accuse: assurdo, dice, che vengano da uno Stato che imprigiona migliaia di suoi impiegati e che finanzia il terrorismo nella regione.