In fondo lo aveva detto già nel 2007, ricevendo dalle mani di Clint Eastwood l’Oscar alla Carriera, salutato anche allora da un’interminabile standing ovation: il premio non costituiva un traguardo ma un punto di partenza per il lavoro futuro. Non era una frase fatta: nove anni dopo, come accaduto già per Nino Rota, anche per Ennio Morricone è arrivato, nella piena maturità della sua parabola, il riconoscimento dell’Academy per la migliore colonna sonora, per il film The Hateful Eight di Quentin Tarantino. Il premio arriva tardi, come accade non infrequentemente a Los Angeles, per via dell’incrocio di tante variabili e complessi equilibri: nel 1987, ad esempio, fu Herbie Hancock a soffiare l’Oscar a Morricone, in corsa con Mission, e l’anno dopo toccò a Sakamoto, con la colonna sonora per L’ultimo imperatore di Bertolucci, lasciando in seconda fila la magnifica partitura di The Untouchables.
Dopo altre due nomination, ecco Morricone accogliere la statuetta con l’emozione e la semplicità dei grandi, peraltro senza l’ombra di quell’attesa ansiogena, fra il messianico e l’escatologico che fan e media hanno ingigantito per il pur meritevole Leonardo di Caprio. Pleonastico tentare di elencare i numeri da capogiro totalizzati dal più celebre dei compositori per il cinema dell’Italia di ieri e di oggi, dai milioni di dischi venduti alle collaborazioni con i registri europei e d’oltre oceano, dal numero sterminato di colonne sonore firmate a quello altrettanto nutrito di premi, cui la seconda statuetta d’oro adesso farà da scintillante capofila.
Conviene forse ricordare quel Leone d’Oro che la Biennale di Venezia volle attribuirgli, primo musicista insignito, nel 1995, che sottolinea quanto la personalità artistica di Morricone vada considerata alla luce della grande tradizione compositiva del novecento italiano: allievo di Petrassi per i corsi di composizione, Morricone, dopo gli inizi come trombettista, ha sempre continuato ad affiancare l’attività di arrangiatore e compositore per il cinema alla creazione di musica pura, militando per decenni con impegno fra le file del gruppo di improvvisazione di Nuova Consonanza, alzando spesso la voce per l’assenza della musica dagli insegnamenti scolastici.
Anche se l’ampia produzione di musica profana e sacra non ha raggiunto la notorietà di quelle per il cinema, Morricone è stato capace di trasferire proprio nelle sue colonne sonore, accanto alla sapienza del mestiere, l’originalità dello sperimentatore, per creare una cifra stilistica distintiva, un sound dai tratti spesso inconfondibili che ha influenzato generazioni di musicisti di generi più disparati. L’italianità di Morricone non rileva soltanto per la solidità di formazione ma trova conferma nella formidabile serie di colonne sonore create per Sergio Leone, da quella per il Brutto il Buono e il Cattivo, a C’era una volta il West, fino all’ultima fatica del regista, C’era una volta in America.
L’apporto di Morricone alla stagione del western all’italiana va davvero riconosciuta come parte costitutiva dell’essenza di quel genere cinematografico, grazie a un mirabile talento inventivo e un’aderenza estetica che completa la ragione d’essere dei film, ben al di là dei più consueti paradigmi funzionali.
E l’influenza di Morricone non si limita neppure a un unico genere, distinguendosi con flessibilità per l’utilizzo assai libero di tecniche della musica concreta e del serialismo, ma anche di elementi tratti dalla musica pop, dal canto etnico e popolare, fino a suoni meno convenzionali che spaziano dagli urli ai fonemi e ai suoni elettronici. Il rinnovamento impresso rispetto al fascino canonico delle colonne sonore hollywoodiane degli anni Sessanta non lo ha peraltro allontanato dall’orchestra sinfonica, ma lo ha imposto come il creatore di un nuovo stile, assai imitato, adattabile alle necessità e alle ragioni dei film più diversi.
E così Morricone, che scrive ancora a matita su carta pentagrammata riesce a essere oggi straordinariamente in sintonia con i registi più amati dal pubblico di mezzo mondo, senza che le differenze anagrafiche rilevino poi molto. E chi ha detto che il conto delle statuette sia già finito?