In una famosa lettera del 1545 Pietro Aretino si lamentava con parole infuocate della diffusione incontrollabile, a quel tempo, della pratica del ritratto e dell’abitudine di immortalare con una effigie non solo i personaggi ai vertici della società e quelli già incoronati dalla fama, ma anche gli sconosciuti di qualsiasi estrazione. Indirizzata allo scultore Leone Leoni, che in quegl’anni era impegnato a ritrarre, quasi fosse un dio, l’imperatore Carlo V (e dunque non era certo il destinatario della reprimenda), l’invettiva si chiudeva con una frase che, considerata la dispotica autorevolezza di Aretino, sembrava non ammettere repliche: «A tua infamia, secolo, che sopporti che sino i sarti e i beccai (i macellai, ndr) appaiano là vivi in pittura».
Eppure, per fortuna, qualcuno in grado sommessamente di replicare ci fu. Ce lo ricorda uno dei ritratti più celebri dell’interno Cinquecento italiano, il Sarto oggi alla National Gallery di Londra, l’indimenticabile capolavoro realizzato, circa due decenni più tardi, dal bergamasco Giovan Battista Moroni (Albino circa 1521-’79). Un pittore al quale le parole di Aretino dovevano essere ben note, visto che si era formato nella bottega del bresciano Moretto intorno al 1540, proprio negli anni in cui il suo maestro andava eseguendo due ritratti perduti del letterato toscano.
Basterebbe questo episodio a farci intendere il rilievo del tutto fuori dall’ordinario della vicenda di Moroni, un artista ormai da tempo riconosciuto come uno dei capisaldi della tradizione figurativa lombarda e di quella sua vocazione al naturalismo che aprirà la strada a Caravaggio. Da ribadire senza incertezze, questo ruolo giocato dal pittore non deve però far passare in secondo piano un altro aspetto ugualmente cruciale del suo percorso. E cioè che, per primo in Italia, Moroni fece del ritratto la principale ragione della propria professione di pittore e, incurante delle minacce di Aretino, specie negli anni della maturità trascorsi tra Bergamo e la nativa Albino, in Valseriana, non si fece problemi ad estendere sempre più la platea dei propri effigiati. Così da dar vita ad una inimitabile galleria di volti, nella quale i personaggi del patriziato locale e le più alte cariche del potere pubblico si trovano affiancati da eruditi, notai, mercanti, umili parroci e uomini poco più che qualunque. Fino appunto all’anonimo Sarto di Londra.
Oggi che scattare ritratti o selfie è diventata una pratica quasi compulsiva, questa storia può apparire poco interessante. Se però facciamo lo sforzo di calarci nell’epoca dell’artista ci rendiamo subito conto che si tratta di una vicenda in qualche modo epocale. Anche perché Aretino non era stato certo l’unico a manifestare insofferenza verso la libera propagazione del genere ritrattistico. È sufficiente leggere il Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinale Gabriele Paleotti, pubblicato nel 1582, quando il pittore era da poco scomparso, per rendersi conto che quella censura era un sentimento assai diffuso nell’Italia rigorista del pieno Cinquecento, stretta tra le ganasce dell’Impero e del Concilio di Trento.
Quanto basta per capire che quella di Moroni fu una vera e propria rivoluzione silenziosa, condotta nel nome del riconoscimento, almeno in pittura, dell’irripetibile identità di ogni individuo, e dunque anche della sua dignità, a prescindere da gerarchie e meriti.
A sollecitare queste considerazioni è la recente pubblicazione del poderoso volume – Giovan Battista Moroni Opera completa, Officina Libraria, pp. 510, e 85.00 – con cui Simone Facchinetti analizza l’opera completa del maestro bergamasco, suggellando una lunga militanza di studi moroniani impreziosita anche dalla curatela, a fianco di Arturo Galansino, di due spettacolari mostre monografiche alla Royal Academy di Londra (2014) e alla Frick Collection di New York (2019). Nell’ambito della ricerca, i libri importanti sono quelli che lanciano ami per ragionare sui grandi temi. Da questo punto di vista il catalogo di Facchinetti è a dir poco generoso. Nelle oltre duecentosettanta schede che lo compongono troviamo tutto ciò che c’è da sapere riguardo alle opere di Moroni, non solo i ritratti, ovviamente, ma anche la cospicua produzione sacra cui l’artista si dedicò lungo l’intera carriera, proponendo spesso immagini di commovente intensità. Nelle quali, tuttavia, si avverte l’incapacità di tagliare il cordone ombelicale che lo legava all’eloquio compassato e devoto del maestro Moretto.
Nei ritratti invece il passo è diverso. Anche perché diversa è la sfida che l’artista affronta: un faccia a faccia sistematico e inedito con l’umanità del suo tempo. E non è un caso che proprio dalla ricognizione di questo versante dell’attività emergano molte delle indicazioni più stimolanti del volume. Ad esempio laddove, scheda dopo scheda, vengono rivelate nel dettaglio le diverse vicende individuali degli effigiati: un dato che grazie alle nuove ricerche assume un peso molto più consistente rispetto alla monografia moroniana, peraltro anch’essa esemplare, pubblicata da Mina Gregori nel 1979.
Si ha così l’impressione di vedere prendere forma davanti a noi un grande palcoscenico che si riempie progressivamente di personaggi, di storie e di intrecci. Tra le prime a entrare in scena è la nobile poetessa Isotta Brembati, raffigurata da Moroni due volte, la seconda delle quali la vede portare con sé un incredibile ventaglio di piume di struzzo bianche e rosa che certo sarà piaciuto al suo futuro marito, da riconoscere nel giovane protagonista di un altro vertice del catalogo del pittore, il famoso Cavaliere in rosa. Che in realtà altri non è se non Giovan Giacomo Grumelli, anche lui patrizio bergamasco, che per farsi immortalare nel 1560 scelse di estrarre dall’armadio l’abito color corallo che ha dato origine al titolo convenzionale del dipinto. E che forse, in anni in cui il nero era già simbolo di eleganza e di contegno, sarà sembrato a molti un po’ da esibizionista.
Ben diversa l’indole dell’agostiniano Fra Michele Brescia, che Moroni raffigura nel 1557 con il suo volto meditabondo e severo, affacciato da un parapetto sul quale un’iscrizione incisa nel marmo ricorda l’iniziativa diplomatica svolta dal frate per sedare una faida sanguinosa tra due famiglie bergamasche. A ricomporre definitivamente la lite contribuirà un accordo firmato poco dopo nello studio del notaio albinese Gian Luigi Seradobati, a sua volta protagonista di un altro memorabile ritratto conservato agli Uffizi, che lo raffigura con in mano la Monarchia di Christo di Giovanni Antonio Pantera, un testo a quel tempo elencato nell’Indice dei libri proibiti. Quante storie, quanti segreti da svelare!
Il racconto potrebbe continuare a lungo, fino ad arrivare agli anni estremi del pittore, ai quali appartiene tra l’altro, con la sua data 1576 e la sua delicata sinfonia di grigi, il malinconico ritratto di Paolo Vidoni Cedrelli, mercante ormai ottantenne del quale ci rimane impresso lo sguardo buono e velato di stanchezza, restituito con toccante immediatezza. La stessa che caratterizza il Padre con due figlie (il cosiddetto Vedovo) della National Gallery di Dublino, ugualmente riferibile all’ultima stagione di Moroni. Un dipinto i cui protagonisti ancora sfuggono all’identificazione anagrafica ma che ci aiuta a comprendere come questa instancabile esplorazione degli individui sia accompagnata, nella parabola dell’artista, dal costante progredire di quella decisiva scelta di campo in direzione naturalistica cui si faceva riferimento.
Anche in questo caso il volume di Facchinetti ci fornisce una guida preziosa, facendoci cogliere la capacità del pittore di affrancarsi poco alla volta dal registro aulico della ritrattistica di stato, per approdare ad un approccio schietto e confidenziale con i personaggi. Che col passare del tempo sempre più rivelano ai nostri occhi la loro umanità spogliata di artifici e di retorica.
Come se, a furia di scrutare tra le diverse vite dei suoi contemporanei, Moroni avesse capito che Aretino sbagliava: onori, gloria e fama erano solo una fragile crisalide. Ciò che contava rendere «vivo in pittura» stava altrove.