E’ una bella stagione quella toccata di recente in sorte al pittore lombardo Giovan Battista Moroni, originario di Albino (Bergamo) e autore prolifico di una fra le più impressionanti gallerie di volti raccolte nel Cinquecento italiano. Baciato da una fortuna altalenante nel corso del XIX secolo, passando dalle note elogiative di Henry James al secco giudizio di Berenson, l’artista si è visto poi rivalutato – sul piano critico, attraverso gli strumenti di un’attenta filologia – dal proselitismo felice del magistero longhiano, capace di sottolinearne l’apporto ‘europeo’ nel genere del ritratto, con aperture in anticipo sul naturalismo secentesco: tuttavia, durante l’ultimo lustro, la sua produzione è stata favorita anche da eventi espositivi numerosi, in mora eloquente sulle ultime monografiche consacrategli sul finire dei settanta e utili a riaccendere – al netto di una durevole attenzione scientifica – un vivace interesse nel pubblico internazionale.
Insieme con l’appuntamento dell’Accademia Carrara a cura di Maria Cristina Rodeschini, basterà qui menzionare la rassegna impressionante organizzata nel 2014 alla Royal Academy of Arts di Londra da Simone Facchinetti e Arturo Galansino, la coppia di studiosi che, con Aimee Ng, ha selezionato le opere presentate oggi alla Frick Collection di New York, in mostra fino al prossimo giugno.
Rispetto all’occasione precedente, questa nuova proposta si focalizza sul solo repertorio dei visi moroniani, includendo tra le proprie opzioni le ‘teste’, le ‘figure intere’, ma anche i dipinti a carattere devozionale, quelle composizioni cioè che associano in formato insolito silhouettes di oranti a un’immagine sacra (la Madonna col Bambino, il Battesimo di Cristo), secondo uno schema messo a punto dal pittore in prove come la rarefatta tela della National Gallery di Washington, il Gentiluomo in adorazione della Vergine, da datarsi attorno al 1555 (e perciò un documento ancora ‘giovane’ per una personalità la cui nascita si colloca sugli anni venti).
Il vaglio accorto condotto su un’oeuvre ricca e omogenea – ammontano a circa centoventicinque i ritratti riferiti a Giovan Battista, che fu autore di numerose pale d’altare, impegnative e poetiche, fra cui il vespertino Matrimonio mistico di Santa Caterina di Almenno San Bartolomeo – offre un’idea articolata della sua ispirazione, a un tempo garantendo una panoramica vasta sull’attività della sua bottega: il volume di accompagnamento, quindi, ha buon gioco nel concentrarsi sulla ‘funzione’ (o meglio, sulle funzioni) delle proposte moroniane, indagandone modelli e dispositivi retorici; una meditazione assonante – per taglio, curiosità e ricchezza di materiali – con altri scandagli recentemente allestiti negli spazi sulla Quinta, in primis il convincente approfondimento dedicato a Murillo (recensito su «Alias-D» il 19 novembre 2017).
Tenuto in conto un simile proposito, nel confronto con la nota dominante della produzione dell’artista, si offrono pertanto come pietre di paragone efficaci – lo mette in luce la Ng, in un saggio informato – soprattutto le eccezioni più eclatanti, in termini di processi creativi o di dinamiche mecenatesche. Nel percorso solo all’apparenza lineare della pittura di Moroni riveste ad esempio una posizione peculiare il Giovanni Bressani di Edimburgo, l’unica opera fra quelle alla Frick a cui si possa con certezza assegnare un valore memoriale, diverso insomma dalla qualità documentaria riconducibile invece alla maggior parte degli altri dipinti, studi dal naturale a giudicare almeno dalla pregnanza fisiognomica, epidermica dei visi, rubizzi o pallidi, giocondi o segaligni, seriosi o aperti a un timido sorriso.
Alcune inedite individuazioni consentono infatti di precisarne i moventi e la costruzione d’insieme, suggerendo di interpretarlo come un ‘monumento’ all’umanista già morto, poeta e erudito, in rapporto con altri committenti del pittore, fra cui Isotta Brembati (anch’essa a New York grazie allo scrupolo di due olii magnetici, in prestito da Bergamo). La scheda in catalogo menziona una carta manoscritta, contenente alcune prescrizioni relative a un’icona postuma del letterato, accolte dalla tela delle National Galleries of Scotland oltre che da una sua probabile copia, perduta, già in possesso dell’incisore Giuseppe Longhi: schema programmatico che chiarisce la facondia del dipinto in un’ottica celebrativa e nei termini di un elogio altisonante.
Un’attestazione siffatta marca allora, per via di contrasto, la reticenza altrimenti condivisa dalle scelte compositive di Moroni, evidenziando a un tempo il valore simbolico degli oggetti da questi disseminati di quadro in quadro, in ossequio a una differente, sobria economia. Si tratta di un dato non secondario, utile a sciogliere l’interpretazione in chiave letterale spesso proposta per il mimetismo legato al suo linguaggio nel senso di predilezioni colte, coerenti, nutritesi sull’esempio di maestri come Lorenzo Lotto o il Moretto; e anzi la generale assunzione di una sobrietà figurativa – tesa al diradamento dei dettagli, rivolta alla rastremazione accorta degli epifenomeni accidentali – ben si declina nell’ambiente culturale in cui Moroni visse e operò, influenzato dal clima della Controriforma con la sua dittatura della chiarezza in fatto di formule pie e diavolerie d’artista.
Non a caso, è il ‘decoro’ un attributo imprescindibile nei ritratti del pittore, tradotto spesso – da una prospettiva novecentesca e stracittadina – in chiave di dolcezza provinciale, ma da intendersi invece come la capacità di ciascuno di adeguarsi pianamente alla propria natura (umorale, sociale, provvidenziale); una virtù da Galateo, caricatasi di ideali salvifici nel tempo in cui la Chiesa romana riorganizzava i ranghi per affrontare la minaccia luterana.
Sotto questa luce si spiegano facilmente le pose confortevoli della ricca oligarchia padana, catturata dal Moroni nel suo album popoloso di tipi e modi: le braccia distese lungo i fianchi, il collo saldo sulle spalle, le mani, i polsi mai flessi in pieghe nervose e convulse, i gomiti allungati su ampi braccioli di savonarole robuste, dimentichi di ansie spigolose o di risentimenti aguzzi, i piedi spaiati in disordine, a fornire appoggi sicuri e stabili per una casualità mai affettata.
Nulla svirgola, nulla s’attorce, nulla s’annoda della vivezza febbrile d’una fiamma: come se Moroni – a Trento per viaggi diversi fra il 1548 e il 1551, frequentando l’entourage familiare del principe-vescovo Cristoforo Madruzzo – avesse avvertito gli echi del dibattito sulle immagini sacre condotto in seno al Concilio in quegli stessi anni; una controversia che di lì a poco – a partire da Venezia, città influente sulle terre di Bergamo e di Brescia – avrebbe assunto a obiettivo polemico negli scritti di Ludovico Dolce e Paolo Pino le figure sforzate di Michelangelo, da poco affrescate nel Giudizio Universale in Cappella Sistina, l’aggrovigliarsi indecente di quei nudi, impensabili nel perfetto, cosmetico assortimento del creato.
In questo senso Moroni è il lirico cantore di una norma di civiltà, di un sentire condiviso, trasparente nei volti tanto quanto nei corpi, un codice etico e formale: non sembrerà dunque strano che nel percorso della Frick a un’effigie soltanto appaia concesso il lusso di una deroga scapigliata. Pensiamo cioè allo straordinario ritratto dello scultore Alessandro Vittoria, certo fra i capolavori in mostra, un giovane barbuto e svelto, la fronte alta, il naso aguzzo, le iridi stellate, il camicione raccorciato alla brava sulla manica in un risvolto candido di bucato. Niente è in pace in questo sembiante serpentino, adombrato da furie e pensieri; e tuttavia l’ennesima anomalia significante nel catalogo del pittore trova il perfetto ubi consistam nella passione muscolare di un busto antico, stretto in mano dall’uomo a mo’ di specchio, ostentato come il testimonio eterno per il legittimo arrovellarsi di un’intensità creativa, affatto acchetata.