Quando arrivo per la prima volta in una città, soprattutto in quelle piccole, non sono mai distratto, cerco di capire la toponomastica, studio le carte, leggo i libri degli scrittori e gli storici che l’hanno abitata o ci sono nati, e poi do una scorsa a tutti i giornali locali. Mi diverte capire cosa accade in quel preciso momento, cosi come mi attrae molto la cronaca nera.
Ricordo che una delle prime volte che arrivai a Ravenna lessi di una badante impazzita che aveva ucciso un vecchio perché credeva fosse posseduto dal demonio, e la cosa mi inquietò parecchio. Un luogo è come una persona, cogli le cose più vere dai primi sguardi, nel momento in cui i nervi sono scoperti e l’istinto è in agguato. Quando ritorni quel primo sguardo l’hai già perso, ma ti condizionerà per sempre, come accade con le persone. Di Ravenna mi colpì subito il centro storico separato completamente dal resto, come se il teatrino ufficiale della vita cittadina fosse il dedalo di piccole vie e monumenti dove potevi incontrare a passeggio molti turisti stranieri con le guide in mano, come se si volesse rappresentare solo il bello, la prosperità e la civiltà di quella zona dell’Italia dove il Pci ha un tempo creato la ricchezza, il benessere e la democrazia. Di questo passato glorioso credo resti solo la mossa, la coazione a ripetere, la recita, una finzione ipocrita e buffa. Quello che scriveva Pier Paolo Pasolini del Pci, se pensiamo ai suoi eredi più prossimi, fa sorridere: «Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico».
Mi sono chiesto anche perché Michelangelo Antonioni avesse girato proprio qui Deserto rosso, un film sulla disumanità della civiltà industriale, il rapporto schizofrenico tra gli uomini e le macchine, con quei rumori cervellotici perfettamente centrati: una sinfonia di ingranaggi, e i fumi, gli sbuffi dei silos negli stabilimenti, i robot nelle case. In quel film Ravenna resta un po’ irreale, anche se certe suggestioni di luoghi ci sono ancora oggi, nella parte più selvaggia della città che è fuori dalle mura antiche. Ho pensato che forse in quel film si nasconde il segreto di questo posto, qualcosa di molto profondo, inafferrabile, che non potrò mai capire neanche venendo qui mille volte.

Il mio hotel preferito comunque è il Byron. Arredamento semplice e sobrio, umanamente funzionale. Un albergo può diventare una specie di seconda casa, ti affezioni, conosci le sue stanze a menadito, le reclami al telefono, sai a memoria i corridoi, l’ascensore, cosi come le donne ucraine o russe che puliscono al primo o al secondo piano, le cameriere bosniache o macedoni, il ragazzo tuttofare polacco e impacciato, hai parlato più volte con le signore della hall che sanno già chi sei, hai raccontato loro che stai scrivendo un libro, e una di queste, una donna minuta con i capelli raccolti e gli occhiali dalla montatura classica, probabilmente di origini meridionali, ti ha pure detto che nel 1987 dentro quella nave ai cantieri Mecnavi, in quella gasiera, ci è morto un ragazzo col quale si vedeva e andava a ballare, un tipo molto simpatico, e lei non potrà più dimenticarla quella storia, per quanto, tanto o poco, le resta da vivere. E ti ha detto pure che la sua è una questione privata, se la tiene per sé, non ti rilascerà nessuna intervista. Non saprai mai chi era quel ragazzo, anche se ti è venuta la fantasia di immaginarlo, ti resterà questa curiosità fortissima e vorresti violare ogni possibile privacy.
La mattina nella sala dove servono la colazione, una stanza piccola ma molto accogliente e quasi mai troppo affollata, c’è sempre qualche assonnato signore inglese, tedesco o americano arrivato in città attratto dalla meraviglia dei mosaici; di quelli con la camicia a scacchi di flanella e le bretelle, un’aria scettica e vaga da Monsieur Hulot, un po’ bradipi insomma. E ti diverti a osservarli mentre mangiano con gesti lenti, meticolosi le loro uova strapazzate e bevono impassibili tazze di caffè bollenti.
Dalla mia stanza potevo organizzare le partenze e scrivere tutto quello che, visto o sentito pochi minuti prima, avevo paura di dimenticare, o volevo fissare in modo diverso e più nitido. Certe volte penso che la mia idea di realismo sia troppo ossessiva, insensata: magari lasciavo la macchina nel parcheggio spazioso e tranquillo di largo Giustiniano, con i guardiani un po’ borderline di una cooperativa sociale, che sta di fianco al Museo nazionale con il Mausoleo di Galla Placidia, trainando il trolley raggiungevo comodamente il Byron e mi piazzavo in camera; ripartivo solo più tardi e arrivavo dove dovevo arrivare, poi tornavo di nuovo all’hotel per mettere il raccolto in uno dei capitoli, battendo frenetico sui tasti del pc. Lo facevo per non perdere l’attimo, non allontanarmi troppo dal vero. Oppure ne rileggevo uno che poteva servirmi a capire un determinato snodo, o semplicemente mi riposavo o facevo una doccia dopo aver vagabondato con l’intento di guardare i movimenti delle persone, le facce, quel qualcosa d’inafferrabile o genius loci che dir si voglia, e ancora spingermi verso le periferie, portarmi nella zona della stazione, che è la più interessante in determinate ore, specie di notte, quando le giovani prostitute sono sedute ai tavoli in attesa di un cliente buono, e i tossici vanno in cerca di una dose. Uno come me passa di lì per bere una birra o un caffè, osserva tutto, sente le chiacchiere e attacca bottone con qualcuno.
Una sera, proprio da quelle parti, una ragazza ghanese con i capelli ricci e folti alla Gloria Gaynor, seduta al tavolino di un bar con un’amica e un uomo anziano, ha ammiccato come fanno le puttane. Era talmente giovane e bella che le ho sorriso, e per una rapidissima, infinitesima manciata di secondi sono stato al gioco, curioso più che altro di parlare con lei, conoscere la sua storia. La tipa si è alzata sveltissima e mi ha detto semplicemente: «Andiamo?» Quando, con molta tranquillità, le ho detto di no, deve esserci rimasta male. «Non è possibile», le ho risposto mostrando goffamente la mano dove luccicava la fede, in modo spiritoso però. «E che significa? – ha ribattuto divertita – Dai!», smascherando il mio gesto da giocoso, finto moralista. Ci siamo messi a parlare, anche se non le volevo rubare del tempo. «Non ho neanche i soldi per ricaricare il telefono e parlare con mia madre in Africa», mi ha confessato. Così, naturalmente, la cosa ha subito messo al tappeto la mia cattiva coscienza di occidentale. Ha sorriso ancora invitandomi di nuovo, ammiccante al massimo. Subito dopo era di nuovo al suo posto vicino al vecchio cliente bavoso. Un altro qualsiasi, ho pensato, sarebbe stato comunque meglio di lui.

Ogni tanto fermo la gente per strada, chiedo se ricordano quel fatto accaduto ormai tanti anni fa. Le persone di mezza età possono risponderti: «Sì, morirono come topi», oppure solo: «Poveracci», i più giovani ti guardano smarriti, si difendono dietro un sorriso, perché non ne sanno niente, si è rotta la cinghia di trasmissione della memoria. Altri ti dicono che non ne vogliono parlare. Con qualcuno il discorso può farsi più complesso, se hanno una coscienza politica ti confessano che i processi furono una farsa, inutile parlarne dopo tanti anni: «È stato uno schifo». «Guardi, lo scriva, glielo hanno permesso a quello là, sono tutti colpevoli. Possibile che nessuno aveva visto niente?» Oppure possono riferire decisi: «È una storia ancora tutta da scrivere, ci sono molte cose che non sono state dette, secondo me c’era di mezzo anche la malavita organizzata», e questo già mi interessa di più, allora mi metto in ascolto. Vorrei rispondere che tutte le storie sono così, nessuna esclusa. A volte la realtà mente.Ma una cosa è certa, una mattina del marzo 1987 tredici operai morirono asfissiati, intrappolati nei doppifondi della Elisabetta Montanari. E non bastano i processi, non sono sufficienti le sentenze, piene di verbali, di voci ingorgate, di verità ma anche di menzogna, non tutte le narrazioni terminano nelle aule dei tribunali, nessun grado di giudizio potrà mai mettere la parola fine. Perché le storie continuano la loro vita, non finiscono mai dove sono accadute, ma se ne parla ancora nelle case, nei bar e nei luoghi di lavoro anche dopo molti anni.
Tre dei ragazzi morti dentro quella gasiera erano giovanissimi e al primo giorno di lavoro, ma in quella squadra di portuali c’erano anche un ex tossicodipendente, un cassintegrato, un uomo a un passo dalla pensione, un egiziano del Cairo venuto a cercare fortuna in Italia. Tredici dei 1500 morti e del quasi un milione di feriti sul lavoro che quell’anno si registrarono, da nord a sud, nel nostro paese.

George Orwell nel suo saggio sui minatori inglesi La strada di Wigan Pier, una cittadina mineraria dell’Inghilterra del sud, a un certo punto scrive sgomento: «La media degli infortuni fra i minatori è cosi elevata, a confronto con altre attività, che le morti sono accettate come cosa normale, quasi come si farebbe in una guerra minore». Come succede in Italia, dove attualmente ci sono 800 mila invalidi e 130 mila tra vedove e orfani che percepiscono una pensione. È una cosa che viene da lontano se si pensa che nel ventennio 1946-66 si sono verificati 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e 966.880 invalidi: quasi un milione di menomati, il doppio di quelli causati dalle due guerre mondiali, che furono mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e delle malattie professionali negli anni della ricostruzione e del boom economico è stata lievemente superiore a un milione di casi annui, dal 1967 al 1969 la cifra è salita a oltre 1,5 milioni e nel 1970 a 1650 000. Con un primato successivo: il nostro paese nel decennio 1996-2005 è risultato quello con il più alto numero di morti sul lavoro in Europa. Infatti continuano a creparne più di quattro al giorno. Rachid Chaiboub, un operaio marocchino di trentadue anni, è morto a Desio mentre stava pulendo una tramoggia spargisale. Ha sollevato la grata di protezione dei rulli ed è precipitato all’interno del macchinario. Fabrizio Pagliano, trent’anni, è morto alla cartiera di Torre di Mondovì: era rimasto impigliato con la tuta in una apparecchiatura che poi ne ha provocato la morte per soffocamento. Francesco Calderaro, operaio di quarant’anni, è scomparso tragicamente a Palagiano cadendo dall’impalcatura di un capannone mentre stava rimuovendo alcune lastre in eternit dal tetto. A San Nicandro Rachid Douioi, trentun anni, bracciante agricolo, è stato travolto brutalmente e senza scampo dalla macchina rotante del trattore mentre recuperava dei tubi per l’irrigazione. Sono alcune vittime di una strage infinita, e sembrano i personaggi della piccola America di fine Ottocento cantati da Edgar Lee Masters nell’Antologia di Spoon River. Dopo un secolo ecco i nuovi Butch Weldy, che saltò in aria mentre la cisterna esplodeva nella fabbrica di scatolame e ricadde «con le gambe spezzate e gli occhi bruciati come uova fritte», o Herman Altman, «arso nella miniera»; per non parlare di quel Mickey M’Grew che per pagarsi la scuola finì operaio giornaliero e morì mentre puliva la torre dell’acqua.