Alberto Moravia ha avuto per tutta la vita una passione per l’arte – e segnatamente per la pittura – forse ancora più intensa rispetto a quella per la letteratura (siglata da una certa «professionalità» e dalla dimestichezza con i ferri del mestiere) e di sicuro rispetto a quella per il cinema, di cui pure fu critico con continuità. Insomma Non so perché non ho fatto il pittore Scritti sull’arte (1934-1990), la raccolta delle sue pagine per questa passione, nell’età della bella prosa avrebbe anche potuto recare come titolo «Piaceri della pittura». Il volume, una vera e propria novità nel suo insieme, è a cura di Alessandra Grandelis (che all’ampia introduzione aggiunge schede di ragguaglio in fondo ai singoli saggi), le ricerca iconografica – ventotto tavole dove sfilano anche vari ritratti di Moravia – è a cura di Nour Melehi (Bompiani «Overlook», pp. LXX-449, euro 35,00; si segnala che, diversamente dal frontespizio, la copertina reca Scritti d’arte).

La stragrande maggioranza degli artisti dei quali Moravia scrive sono suoi contemporanei e compagni di viaggio, molto spesso di area romana. Dei novanta pezzi solo una mezza dozzina sono sull’arte del passato; così che pare di poter dire che l’interesse di Moravia sia sempre quello mai dismesso del romanziere: quando incontra i quadri, incontra sempre soprattutto il pittore e crea personaggi con i quali interagire, come nel caso di una lettera al posto di una «cosiddetta introduzione» per Titina Maselli. Ciò pare sempre conseguenza di quanto scritto in un appunto del 1969 che è meglio riportare per intero: «Sulla pittura non c’è niente da dire. Il discorso critico è possibile soltanto sulle frange culturali di un’arte. Queste frange non sono visibili nella pittura. Che dire della pittura? Si può dire che è pittura. Una tautologia che conferma che della pittura non si può parlare. Certo si potrebbe dire quello che si prova davanti alla pittura. Ma che c’entra quello che si prova davanti alla pittura con la pittura stessa? Anche perché si può benissimo non provare niente e tuttavia aver capito la pittura. L’occhio è uno specchio. La pittura vi si riflette ma non oltrepassa lo specchio». Se si vuole, c’è una tradizione critica dietro un’affermazione come questa; ma in Moravia, formatosi a stretto contatto con artisti e critici d’arte, la questione si presenta anche come un problema di logica, dipanato al suo modo.

Per quelle che Moravia chiama «frange culturali» c’è una parte del libro dalla quale tutto si può spiegare al meglio: il saggio su Picasso pubblicato nel 1968 come introduzione a L’opera completa di Picasso blu e rosa per i «Classici dell’arte» Rizzoli. Joyce che a Trieste inizia a scrivere Ulysses e Stravinskij che manda in scena a Parigi L’oiseau de feu – entrambi nel 1910 – e Picasso che tra 1903 e 1906 dipinge da I giocolieri a Acrobata e giovane equilibrista per Moravia intonano il Novecento: «un’arte rifatta sull’arte, un’arte non più in presa diretta sulla realtà ma mediata dall’estetismo, un’arte convogliata dalla coscienza critica fuori dalle tempeste della creatività verso le lagune immobili della maniera e dunque, più tardi, del consumo». Si tratta di una tesi brillante alla quale Moravia allega fatti sostenuti dal suo inesorabile ragionare; ma come spesso gli capita (si pensi solo al saggio su Manzoni e il realismo cattolico, costruito in chiave antistalinista e pubblicato nel 1960 per l’edizione einaudiana dei Promessi sposi illustrati da Guttuso), si innamora della propria tesi e, per innamoramento, accantona alcuni fatti che gli stanno sotto gli occhi. Ciò non impedisce al lettore di ammirarne l’intelligenza e anzi, talvolta, si ha l’impressione che i saggi di Moravia siano una sorta di invito alla conversazione e un auspicio di polemica. Per dire: il 29 maggio del 1913, ovvero la prima del Sacre du printemps al Théatre des Champs-Élysées, può essere eliminato dalla prospettiva del Novecento, rimanendo all’Oiseau? La risposta implicita la fornisce Moravia stesso quando scrive che il periodo blu e rosa è il «tempo in cui il culto della vitalità si pone ancora dei limiti, diciamo così, di contenuto, prima che venga la rivelazione (Le damigelle di Avignone) della vitalità come pura riflessione critica fusa con la pura volontà eversiva». Così le Demoiselles, che sono del 1907, e che in un’equazione starebbero al Sacre, sono solo un punto di conferma della tesi come impostata che però, in forza di due prove di tale potenza, avrebbe potuto (o dovuto) essere riformulata partendo proprio da lì.

Allora forse davvero la soluzione è interrogare con la vista invece che con le parole. Il nome più ricorrente nel presente volume è quello di Guttuso; in uno scritto che Moravia gli dedica nel 1962, l’appunto del 1969 sopra riportato è già tutto presente; ma il procedimento è quello del dialogo, qui esplicito. Si tratta di una forma spesso praticata da Moravia, talvolta però implicitamente, tanto da finire per somigliare a un monologo, a una convinzione finalmente raggiunta e che non prevede repliche. Il dialogo del 1962 così era: «“La critica d’arte, specie quella che si occupa della pittura, è così spesso presuntuosa, vuota e ridicola. In realtà non c’è niente da dire.” “E allora di fronte a un quadro, per esempio un quadro di Guttuso, che cosa bisogna fare?” “Guardarlo.” “E poi?” “E poi ancora guardarlo.” “Soltanto guardarlo?” “Sì, la pittura va guardata, che c’è di strano?”