Cursus honorum Pci-Pds-Ds, sempre solidamente migliorista cioè a destra – absit iniuria verbis, s’intende nella geografia interna dei comunisti italiani – Enrico Morando, viceministro all’economia dei governi Renzi e Gentiloni, è il più autorevole esponente dell’area liberal del Pd. Definizione generica che accetta con cortesia perché, spiega, tanto nel partito che nell’associazione che presiede (LibertàEguale), «ci sono anche liberaldemocratici. Io mi definisco liberalsocialista. Ma liberal, sinistra liberale, va bene

. In quest’area si colloca, nelle intenzioni, il partito di Matteo Renzi. Che infatti fin qui Morando aveva sostenuto.
Per Renzi i liberal non possono più stare nel Pd. È così?
È vero il contrario. Considero quella di Renzi una scelta che indebolisce la componente liberal nel Pd rispetto all’altra componente, la sinistra tradizionale, più assistenzialista e statalista. Ci indebolisce e non crea le condizioni per una maggiore forza dei liberal nel campo del centrosinistra. Al contrario: ripropone la logica della divisione del lavoro fra il centro e la sinistra: proprio quella che volevamo superare grazie alla nascita del Pd. Siamo stati in particolare noi, negli anni, anche con iniziative di estrema minoranza, a sostenere che il riformismo italiano doveva uscire dalla sua minorità, rappresentata dal fatto che, unico in Europa, era presente – ovunque in minoranza -, in più partiti avversari. A fine anni 90 iniziammo la battaglia per la riunificazione del riformismo, a partire dall’idea dell’Ulivo come soggetto politico. Ci siamo riusciti, il discorso di Veltroni al Lingotto del 2007 segna l’affermazione di questa linea politico-culturale sull’altra. Così nasce un partito nel quale la linea politica e la leadership sono contendibili, tanto che nel congresso successivo vince Bersani. Noi, sconfitti, non ci siamo persi d’animo. Infatti poi rivinciamo con Renzi.
Che oggi se ne va, però.
Se ne va sostenendo che il Pd è diventato una sinistra statalista e assistenzialista e che la linea non è più contendibile. Nel migliore dei casi, una profezia che si autoavvera: si indebolisce la nostra componente per poi affermare che è debole e non più in grado di affrontare la sfida per l’egemonia. Ma la storia del Pd dimostra il contrario.
Renzi sarà un alleato. Lei conserva la sfiducia nelle coalizioni come il Pd delle origini, quello della vocazione maggioritaria?
Ho sfiducia nella capacità riformatrice di una coalizione che non abbia come asse un grande partito a vocazione maggioritaria. Le coalizioni che giustappongono partiti piccoli, nessuno dei quali è punto di riferimento, tendono ad avere programmi e azione di governo poco coerenti. Quindi, riformisticamente poco efficaci. Se il Pd mantiene la natura di grande partito riformista a vocazione maggioritaria può stare in coalizioni anche con M5S, per intenderci. L’attuale alleanza è uno stato di necessità. Ma per proseguirla in futuro dobbiamo puntare a un drastico riequilibrio dei rapporti di forza.
Renzi si propone di «assorbire» il consenso dal Pd. A partire da voi, immagino. L’addio di Renzi non cambia la natura del Pd?
No, se l’area liberal del Pd fa bene il suo mestiere. Se replica la vicenda congressuale ultima, in cui si è divisa e non è stata un riferimento anche per chi sta fuori, è chiaro che quel rischio diventa serio.
Zingaretti non vuole trasformare il Pd in un partito più classicamente di sinistra?
Credo di no. Perché sa che se noi compiamo scelte che suonano come una conferma di chi ci vuole partito di sinistra tradizionale, il rischio di una vera crisi di funzione – con inevitabili effetti sul piano elettorale – può diventare assai serio. Non lo diventa se noi liberal facciamo la nostra parte. E se chi ha la maggioranza del Pd ce la fa fare da protagonisti.
Per evitare la vostra fuoriuscita il Pd deve diventare liberal?
Non sto dicendo questo. Dico che dobbiamo produrre una credibile alternativa di linea politica e leadership; e che chi dirige il Pd deve tenere aperte le condizioni per la piena contendibilità dell’una e dell’altra. Le due componenti fondamentali devono reciprocamente riconoscersi legittimità, come avviene in tutti i partiti di centrosinistra a vocazione maggioritaria.
In Italia non c’è bisogno di un partito liberal alla Macron?
Se il Pd fa il Pd, no. Se il Pd fa il Partito socialista francese, è chiaro che lo spazio per Renzi si amplia.
Per «fare il Pd» il Pd deve restare rocciosamente sulla vocazione maggioritaria?
Assolutamente sì. L’abbandono della vocazione maggioritaria sarebbe esiziale. Ma non credo che Zingaretti abbia questa intenzione. Tant’è che pensa a un congresso che riaffermi questa natura. Naturalmente c’è il rischio che nelle scelte concrete si compiano errori che favoriscono il racconto di chi sostiene che il Pd quella vocazione ormai l’ha perduta per sempre.
Faccia un esempio.
Quota 100: se esiti a dire ciò che è ovvio, cioè che si tratta di una tragica iniquità, per di più insostenibile finanziariamente, non ti costituisci come riferimento dei giovani e della maggioranza dei lavoratori. E restringi il tuo radicamento. Un altro: «Prescrizione mai» è una aberrazione giustizialista. E ancora: non si mettono a rischio, per esigenze di mera tattica politica, interessi strategici del paese e dei lavoratori, come rischia di accadere nel caso Ilva.
Il futuro del nuovo centrosinistra è la coalizione. Persino a prescindere dalla legge elettorale, maggioritaria o proporzionale che sia la prossima. In questa ottica non è meglio, cioè più efficace a raccogliere voti, che ogni cultura faccia la sua parte, ogni partito la sua?
Ripeto di no. Perché questo crea le condizioni per non avere, nel campo del centrosinistra, una formazione dotata di vocazione maggioritaria per qualità di leadership e insediamento sociale. Risultato: impossibile il cambiamento, perché il governo del Paese è troppo debole. Infatti una delle ragioni di esistenza dei prossimi mesi e anni del Pd è anche la difesa di un sistema politico elettorale nel quale i cittadini scelgano direttamente, col loro voto, a chi affidare il governo, e non si limitino a dare le carte a partiti che le giocano dopo il voto sul tavolo della formazione del governo. Serve il maggioritario. È positivo che, dopo alcune settimane nelle quali si dava per scontato che l’accordo con M5S implicasse l’adozione del proporzionale, Zingaretti abbia scelto il maggioritario. Le coalizioni ci possono essere, ma si devono formare prima.
Zingaretti sembra essersi orientato al maggioritario per la speranza di costringere i 5 stelle all’alleanza. O sbaglio?
Ma se il Pd fa il Pd, cioè svolge la funzione egemone, anche l’alleanza con M5S si rende praticabile.
E se non fa il Pd lei finirà per andare nel partito di Renzi?
Rispondo come rispose il grande Andreatta alla domanda analoga sulla eventuale sua adesione al nascente partito dell’asinello: per me, due partiti nella stessa vita sono più che sufficienti.