Morando è un amo a cui noi affamati di cultura ci attacchiamo
È un giro alla roulette in cui non sai mai il suo pensare libero dove ti condurrà
È un bacio rubato a Truffaut senza nemmeno sapere se lo ami almeno quanto me
È un bisbiglio nella folla di una sala cinematografica
È qualcosa che ti trasforma definitivamente, come un veleno o una pozione magica di cui non esiste antidoto per tornare indietroÈ una pioggia allegra
È carta stampata
È timidezza arrogante
È coraggio e schiena dritta e tasti pigiati sulle lettere pesanti di una macchina da scrivere
È fumo, tra le labbra, sulle dita delle mani
È memoria senza compiacimento
È emozione senza spargimento di sangue né lacrime
È razionalità logica cervello mescolati tra loro da un mare di vita
È, come penso da dieci anni, poco dopo averlo conosciuto, il mio amore anziano in questa vita, mio compagno in una vita passata.
Morando mio.
(23 giugno 2014, scritto in occasione della consegna da parte della citta di Milano dell’Ambrogino d’oro).

 

 

Mi sveglio e il mondo senza di lui mi sembra triste, inutile, arido. Mio figlio, che a 3 anni diceva «Morandone è magico», qualche giorno fa mi suggeriva di intervistarlo per il mio work in progress sui centenari e, alla risposta che mancavano ancora nove anni, affermava: «Ma Morando vivrà fino 100 anni!» come fosse cosa ovvia. Purtroppo non è andata così. Morando se n’è andato in silenzio, mancando uno a uno i respiri, esalando un ultimo alito di fumatore incallito.

 

 

«Quanti anni ha?»
«Non li ho più. Li ho finiti».
Questo breve scambio di battute, scritto per il nostro film, lo rappresentava.

 

 

Sopravvissuto alla vedovanza per più di dieci anni, lavoratore assetato e senza fatica, personalmente l’ho conosciuto così: un signore canuto che si avvicinava agli ottanta, balbuziente quando cercava il concetto perfetto, dolce con pochi eletti, bizzoso a seconda delle lune. Portava sempre con sé un taccuino rubrica, con le pagine segnate dall’alfabeto: vi segnava le citazioni che ricordava, che ricercava, che gli capitava di incontrare per caso. Amavo la sua calligrafia minuscola, vergata con incertezza. Da scrittore inarrestabile qual era, non poteva esimersi dall’esprimere subito le cose che voleva dire a qualcuno: dunque imbracciava la macchina da scrivere, sua arma ferale e scudo fidato, e scriveva lettere personali, generalmente di una pagina, correggendo i refusi con il bianchetto e la biro sopra. La nostra corrispondenza conta un centinaio di missive almeno e, nei prossimi anni, sarà per me tesoro.
Del suo mestiere mi diceva: «Faccio la cosa che preferisco e mi pagano».

 

 

Viveva consapevole il paradosso, la fortuna e il merito di tale privilegio. Ha vissuto con ardore, coraggio, senso della sfida. Passare dall’altro lato della barricata scrivendo con me, a ottant’anni suonati, la sceneggiatura di un film è stata solo una delle tante scelte dissennate che ha amato giocare. Ho sempre detto che in altre vite siamo stati marito e moglie: la complementarità apparsa come un’aura tra noi la prima volta che ci siamo conosciuti a Bellaria nel giugno 2004 ha dimostrato, in questi undici anni di amicizia a prima vista (come la chiamava lui), di essere vera, vigile, pulsante. Non una simpatia passeggera, non un fuoco di paglia. È stato, intercambiabilmente, mio padre, mio figlio, il mio amante, mio nonno, mio fratello, mio marito, il mio mentore, mio amico, mio tanto. Morando mio, oddio, come mi è difficile dirti addio.