Nel 1888, quando uscirono le Confessions of a Young Man (una prima stesura in francese era apparsa sulla «Revue indépendante» nel 1886) George Moore aveva 36 anni e da cinque non viveva più in Francia. Le Confessions sono il racconto della sua formazione prima a Parigi poi a Londra, dove è costretto a rientrare dai dissesti finanziari. «Io appartengo interamente al diciannovesimo secolo. Tutte le sue idee sono incarnate in me» esclamava l’opera in un dialogo immaginario col suo autore nella Prefazione di Esther Waters, il maggiore fra i romanzi di Moore. Ebbene, ciò che poteva dirsi di Esther Waters può ripetersi a maggior ragione per le Confessions, anche se l’eterogeneità dell’ispirazione gli fa assumere alle volte la natura ibrida, ora narrativa ora saggistica, delle forme di scrittura più moderne. Nel corso del racconto il protagonista assume tutte le pose intellettuali ed estetiche che potevano vedersi in quegli anni nella capitale francese: il culto del vizio e del fasto latino alla Gautier («Lussuria, crudeltà, schiavitù: a tutto questo io gridavo il mio Ave»), il cinismo aristocratico («i fittavoli rifiutavano di morire di fame, in conseguenza di che, io stavo per essere privato della mia mezza tazza da Tortoni»), il cristianesimo profanatorio di Baudelaire fino all’amore del music-hall. C’è anche la descrizione di un salotto, quello dell’amico Marshall («il tappeto turco, la lampada orientale di rame, il parafuoco giapponese») arredato nel gusto eclettico del celebre appartamento di Montesquiou in quai d’Orsay 41: puro 1875. «La mia anima – dichiara Moore – per quello che ne capisco ha preso con facilità forma e colore dai diversi modi di vita attraverso i quali io son passato», e in effetti le Confessions sono una testimonianza unica dell’assimilazione di taluni motivi letterari francesi nella cultura inglese come Un eroe dei nostri tempi di Lermontov lo è del byronismo in Russia.
Ma l’incanto del libro deriva dal ritmo baldanzoso che Moore imprime alla narrazione: «lo strepito sonoro della musica, il verde artificiale del fogliame, la calca chiassosa dei ballerini (…) poi il ritorno in vetture scoperte in mezzo alla polvere bianca», da quella vettura Moore non sembra mai scendere in questo romanzo che cambia di intonazione con la frequenza con la quale il protagonista cambia postiglione. Se Moore avesse passato tutte le sue impressioni di giovinezza al vaglio dell’età matura, riordinandole per trarne le somme, si sarebbe avuta un’opera più classica e, insieme, più equilibrata ma certo meno saporosa e originale. Oltre che meno allettante per il gusto moderno che può scorgere nell’irrequieta mobilità dei toni un’anticipazione d’estetiche novecentesche. C’è della franchezza tutta irlandese in certe sfacciate confessioni dei propri errori di giudizio, com’è nel caso degli Impressionisti. Il protagonista si reca alla loro terza Esposizione con Marshall: «Noi non sapevamo lanciare che grossolane ironie», confessa Moore, e, in effetti, le battute che i due giovani si scambiano somigliano a quella che un giornalista faceto aveva messo in circolo in quei tempi su di una presunta pistola caricata con tubetti di vario colore e impiegata dagli artisti per spararli sulla tela. Moore vede le tele della Morisot, di Pissarro, di Degas, di Renoir e si ritrae come i borghesi di Daumier. Cambierà idea e diventerà amico di quei pittori che aveva allora avventatamente criticato. Si ritrovano molti di questi rivolgimenti nel corso del libro, tanto da far pensare che ne costituiscano la particolare pulsazione, scandita d’entusiasmi, disincanti e nuove scoperte. Parigi è nella vita di Moore la rappresentazione stessa di questa sperimentazione febbrile: la lascerà a malincuore.
Oggi questo libro ircocervo, con tutti i colori della giovinezza, può rileggersi in un’edizione della Castelvecchi (pp. 192, euro 17,50) che si ha qualche scrupolo a dire «nuova» non essendo che la ristampa di un’edizione Alberto Stock del ’29 della quale sono riproposte sia l’introduzione che la traduzione. Avrebbe però guadagnato a essere una ristampa anastatica giacché per eleganza grafica l’edizione del ’29 nella sua asciuttezza dà dei punti a questa che reca in copertina il ritratto dello scrittore dipinto da Manet ma con un riquadro verde che ne copre parte del volto. Nemmeno l’impaginazione interna può dirsi ispirata da auree armonie. Spiace molto che un editore il cui catalogo testimonia gusto e coraggio pubblichi edizioni che spirano un tale senso di negligenza.