Siamo da capo. La visita del presidente sudcoreano Moon Jae-in da Donald Trump era stata definita come «propedeutica» al prossimo incontro tra il presidente americano e Kim Jong-un a Singapore il 12 giugno. Meeting che a questo punto è in alto mare: nonostante Moon jae-in abbia ancora una volta vestito il ruolo del «saggio», colui che cerca di mettere d’accordo due teste calde, Trump ha lasciato balenare che quell’incontro potrebbe anche non farsi: non il 12 giugno almeno. Poco prima di riunirsi con Moon, Trump ha spiegato che «Kim è serio, ma l’incontro potrebbe essere posticipato». Poco dopo, secondo Reuters, Mike Pence – invece – avrebbe ribadito che l’incontro si farà. Per Trump dietro l’irrigidimento di Kim che – secondo lui – dilaterebbe i tempi, ci sarebbe «Xi Jinping, grande giocatore di poker». Chiusura o mossa per stringere sul negoziato? Con Trump non si può mai sapere.

IL SUMMIT DI SINGAPORE di recente – va specificato – era stato messo in discussione prima di tutti da Pyongyang: alla luce delle esercitazioni congiunte tra Usa e Corea del Sud, Kim ha fatto saltare un incontro con Seul e ha minacciato di disertare l’appuntamento con la storia (e con Trump). Da parte sua gli Usa hanno ribadito che la negoziazione, per come la intendono loro, deve portare solo e soltanto alla denuclearizzazione, senza preoccuparsi delle basi americane in Corea del Sud. La visita di Moon – quindi – si è colorata di inconvenienti e di necessarie spiegazioni. I maligni ritengono che Seul abbia esagerato nel suggerire a Washington una predisposizione alla denuclearizzazione da parte di Kim dopo l’incontro intercoreano dello scorso 27 aprile, creando così eccessive aspettative. Di certo – ora – c’è da ricreare quel clima seguito a Olimpiadi invernali, girandole di inviti e incontro tra Moon e Kim, che appare davvero svanito.

Oltre a questo Moon dovrà anche spiegare a Trump e al suo staff come relazionarsi con Kim Jong-un, caso mai si sbloccasse la possibilità di un incontro, spiegando che probabilmente «uscite» come quelle di Pence – su Kim e la fine di Gheddafi – non favoriscono la possibilità che a Singapore si arrivi se non a un risultato pieno, quanto meno a un vago accordo e non a una clamorosa rottura. In quel caso la situazione non solo tornerebbe a quella del 2017, ma si arricchirebbe di diffidenze nuove, come non bastassero le pregresse. La recente tregua stabilita da Washington con Pechino sulla questione dei dazi, inoltre, dovrebbe favorire la possibilità di dialogo. Non c’è infatti solo Trump sulla scena. Pechino ha bisogno di un accordo che plachi le tensioni in Asia, per potersi dedicare con calma ai propri obiettivi.

ANCHE LO STESSO MOON, al di là dei suoi indubbi meriti di natura umanitaria, è spinto a una conclusione positiva della crisi coreana, per diversi motivi: in primo luogo perché si è giocato tutto il carico della sua carriera politica nella prospettiva di risolvere la crisi; in secondo luogo perché da un punto di vista degli equilibri dell’area, un eventuale trattato di pace tra le Coree, con l’avvallo Usa, libererebbe indubbiamente Seul della vicinanza forzata con gli Usa, consentendo una virata non solo verso la Corea del Nord ma anche verso Pechino.

LA POSTA IN GIOCO È ALTISSIMA, ma oggi come oggi ancora non c’è certezza che a Singapore l’incontro si terrà. Dopo la prima risposta americana piuttosto tiepida alle accuse nordcoreane per le esercitazioni, da Pyongyang non sono arrivati altri segnali. Può essere significhi che si trattava di una schermaglia, ma i peripli strategici di Kim ci hanno abituati un po’ a tutto. In attesa di notizie sull’esito dell’incontro Moon-trump – cui hanno partecipato solo gli interpreti – teniamo per buone le speranze della vigilia. «Ci aspettiamo che il summit giochi un ruolo di ponte e possa condurre al successo del summit Corea del Nord-Usa», ha dichiarato ieri Nam Gwan-pyo, vicedirettore dell’Ufficio di sicurezza nazionale sudcoreano.