«Signori, sono in Paradiso o sulla Luna?», disse George Bernard Shaw una volta arrivato sul Monte Lovcen nel versante sud occidentale del Montenegro, ammirando da lassù le Bocche di Cattaro, il Mare Adriatico e il lago di Scutari . C’è in effetti un surplus di bellezza selvaggia e primitiva che distingue il Montenegro dagli altri Paesi Balcanici, e che si riverbera anche nei corpi e nei modi d’essere delle persone, una condizione che porta i montenegrini a vedersi e ritenersi migliori e più ‘grandi’ degli altri. Ciò succede anche in politica perché il nazionalismo funziona sempre come mito fondante e sembra non tramontare mai. «Il nazionalista-diceva Danilo Kis, la cui genetica assommava matrice serba e montenegrina- non si fa problemi; sa (o crede di sapere) quali sono i suoi valori fondamentali, i suoi e, per conseguenza, quelli del suo popolo, i valori etici e politici della nazione a cui appartiene. Gli altri non gli interessano. Niente che riguardi l’altro o gli altri rientra nella sua sfera d’interesse. L’inferno sono gli altri (altre nazioni, altre tribù), gente che non merita di essere studiata o conosciuta …».

Sono mesi complicati nella vita politica del Montenegro, non sono ancora passati quindici anni dalla dichiarazione di indipendenza dalla Serbia che già i montenegrini mostrano segni di insofferenza al punto che ad agosto hanno votato un nuovo governo filo-serbo guidato da Zdravko Krivokapic e dal desiderio di rientrare sotto l’alveo protettore della Grande Serbia. È questo il motivo per cui non è passata inosservata la presenza del presidente serbo Aleksandar Vucic e del politico più influente della Republika Srpska, Milorad Dodik oltre che del patriarca Irinej, al funerale del metropolita della Chiesa ortodossa serba in Montenegro Amfilohije, colui che era stato già complice nel recente passato di Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic. In Montenegro le lancette del tempo e della storia sembrano andare un po’ avanti e un po’ indietro. Con un passato che non passa mai e che tiene inchiodati alle «paranoie individuali spinte fino al parossismo».

C’è per fortuna una scena culturale e artistica attiva e reattiva che contrasta le derive e le ideologie nazionalistiche e che vede in Danilo Kiš, poeta, scrittore, filosofo e mito al contrario della contemporaneità, il loro ispiratore. Ci sono attori, registi e artisti che non hanno mai smesso di viaggiare dentro la ex Jugoslavia e scambiare fra di loro idee e progetti, varcando le frontiere e barriere tra Serbia, Croazia, Montenegro e Bosnia Erzegovina. Un processo di osmosi e contaminazione culturale che ha visto come protagonisti due tra le più importanti istituzioni culturali di Podgorica, il Teatro Nazionale Montenegrino e il Fiat-Festival of International Alternative Theatre. Il Fiat prende in mano negli anni Ottanta l’eredità del Fyat – Festival of Yugoslavian alternative theatre nel segno di una vocazione non solo regionale ma internazionale, ospitando tra gli altri Jan Fabre, Pippo Delbono, Eugenio Barba, Ellen Stewart, Rodrigo Garcia, Andrey Zholdak e raccogliendo le energie artistiche migliori della Jugoslavia e post Jugoslavia.

Alle origini di questo festival c’è un ragazzo ribelle, regista autore e produttore, Slobodan Milatovic, morto due anni fa, che fonda il primo teatro indipendente del Montenegro, Dodest, per reagire all’atrofizzazione delle pratiche teatrali in epoca socialista, facendo sua la matrice politica e il motto del Living Theatre: «Siamo impegnati nel teatro né dilettantisticamente né professionalmente, ma costantemente».

«Non sono stato creato dalle istituzioni, sono stato io a crearle ovunque andassi», ripeteva Slobodan Milatovic, sempre critico nei confronti della politica culturale ufficiale. Nel 1984 lo spettacolo Politica come destino da lui diretto nello Studentski Kulturni Centar di Belgrado, all’epoca centro del pensiero dell’opposizione e rifugio per artisti ed intellettuali che la pensavano diversamente, radunò l’élite artistica ed intellettuale dell’ex Jugoslavia, e, subito dopo il debutto, il centro venne preso d’assalto da un’unità speciale di polizia che buttò fuori il pubblico con la scusa di un allarme bomba. Ora l’eredità artistica del festival è passata nelle mani di Ana Vukotic, regista che sta dando nuovo slancio al Fiat con un taglio più interdisciplinare, un maggiore coinvolgimento dei giovani artisti e una più marcata valorizzazione degli spazi urbani.

Quasi contestualmente alla nascita del Fiat, nel 1987, la vecchia sede del Teatro Nazionale Montenegrino intestato a Tito crolla tra le fiamme di un incendio, a segnare emblematicamente e anticipatamente il crollo della ex Jugoslavia. Il nuovo «CNP- Crnogorsko narodno pozorište» viene ricostruito e riaperto dieci anni dopo con una missione rinnovata e con la direzione di Branislav Micunovic, quella di dare corpo all’identità culturale montenegrina e rafforzarne il capitale umano e artistico, offrendo opportunità alla vecchia e nuova generazione di registi, drammaturghi e attori, diplomatisi presso la Facoltà di Arti Drammatiche di Cetinje come Srdan Grahovac, Nada Vukcevic, Dejan Ivanic, Dubravka Drakic, Ana Vukcevic, Momcilo Otaševic, Aleksandar Radulovic. Il teatro affida la regia di spettacoli ad artisti come Egon Savin, Eduard Miller, Sloboda Erakovic Milatovic, Branislav Micunovic, Radimila Vojvodic, Ana Vukotic, Lidija Dedovic, Niko Goršic, Paolo Magelli. Entra a far parte di N.E.T.A (New European Theatre Action), una rete internazionale attiva sino alla morte di uno dei suoi fondatori, Damir Domitrovic, regista e fondatore del festival Ex Ponto di Lubjana, deceduto prematuramente nel 2016. Una maggiore apertura internazionale del teatro e un tentativo di ricambio generazionale avvengono con la guida di Janko Ljumovic, docente all’Accademia delle Arti Drammatiche di Cetinje, che lascerà l’incarico di direttore per assumere quello, troppo breve in verità, di Ministro della Cultura.

Le pratiche artistiche e culturali implementate dal Fiat e dal CNP dimostrano quanto le due istituzioni più che essere influenzati dai cambiamenti politici e sociali avvenuti con la fine della ex Jugoslavia siano stati delle formidabili leve per il cambiamento sociale e culturale del Montenegro, andando ben oltre la dicotomia tra impegno ed evasione che il critico Bosko Milin propone come chiave di lettura in Theatre and performance in Eastern Europe di Dennis Barnett and Arthur Skelton (2008). Parafrasando lo scrittore Ognjen Spahic si può ben dire che le divisioni politiche e geopolitiche in atto nei Balcani non rispecchiano né il teatro né la cultura contemporanea del Montenegro.