Da anni Pietro Montani, già docente di Estetica alla Sapienza di Roma, riflette sulle nuove tecnologie in una prospettiva filosofico-antropologica. Chi ha apprezzato alcuni suoi precedenti lavori, come Bioestetica (2007) e L’immaginazione intermediale (2010), lo seguirà volentieri nei nuovi intriganti percorsi del suo ultimo saggio: Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica (Cronopio, pp. 162, euro 14,00). La tesi di partenza è che la creatività tecnica è stata ed è la principale risorsa adattiva dell’homo sapiens e che da essa discendono tutte le altre sue forme di creatività, incluse l’arte e la politica. Che l’uomo abbia la predisposizione a prolungarsi negli artefatti tecnici, e che li utilizzi per supplire alla limitatezza della proprie facoltà naturali fino a instaurare una simbiosi tra organico e inorganico, non è un’idea nuova. Senza scomodare i grossi nomi che Montani stesso fa (pensatori come Derrida e Simondon, paletnologi come Leroi-Gourhan, psicologi come Vygotskij e Tomasello), basterebbe citare il recentissimo bestseller di Dan Brown, Origin, dove si dà per scontata la prossima ibridazione della specie umana con gli strumenti che costruisce. Al di là di certe previsioni apocalittiche, è certo che l’homo technologicus è destinato a subire una profonda trasformazione culturale, epistemologica e perfino fisiologica.
Dove termina il corpo?
Già oggi non è facile stabilire dove termini il nostro corpo: il limite topologico rappresentato dalla pelle e dalla portata degli organi di senso è superabile dal punto di vista comunicativo, e se è vero che l’uomo fa la tecnologia, bisogna prendere atto che la tecnologia a sua volta fa l’uomo. Probabilmente meccanismi darwiniani (selezione naturale) e lamarckiani (ereditarietà dei caratteri acquisiti) sono già operanti: come spiegare altrimenti la disinvoltura con cui bambini di pochi anni maneggiano computer e smartphone?
In questo panorama cangiante la trama dell’etica e dell’estetica è continuamente lacerata. E qui il discorso di Montani imbocca una pista davvero originale. Rifacendosi alla lezione del suo maestro Emilio Garroni, riprende la nozione kantiana di ‘schematismo tecnico’, che il filosofo tedesco applicava al processo per il quale noi umani aggiungiamo all’esperienza che facciamo degli oggetti qualcosa che non è insito in quei medesimi oggetti. Costruiamo insomma per via di sintesi una regola che si può utilizzare nella realizzazione di nuovi artefatti. La chiave di questa creatività tecno-estetica è per Montani l’immaginazione, che si esternalizza in tutti i prodotti della techne, siano essi strumenti, congegni o opere d’arte.
Ne discende il particolare interesse dell’autore per il rapporto tra percezione e immaginazione, specialmente rispetto alle nuove tecnologie dell’immagine, e – cosa molto meno scontata – per il rapporto tra immaginazione e linguaggio verbale e per l’immaginazione onirica. Quest’ultima è per Montani radicata nello strato più arcaico della psiche, dove attinge tracce mnestiche remote che non possono essere esplicitate verbalmente proprio perché risalenti a una fase pre-linguistica, a un momento in cui l’in-fans non ha ancora acquisito un linguaggio articolato e si avvale perciò di strumenti simbolici primitivi, di natura prettamente immaginativa. Di più: Montani arriva a formulare l’affascinante l’ipotesi che la principale funzione del sogno sia proprio quella di affrancare l’immaginazione dalla tendenza annessionistica del linguaggio verbale. Attraverso una perenne destrutturazione (il paragone, invero suggestivo, è con la tela di Penelope) l’immaginazione riuscirebbe a preservare la sua componente intuitivo-percettiva (la irriducibile bizarreness, come la chiama Montani), assicurandosi «una costante manutenzione della sua capacità di improvvisare», ovvero di sintetizzare al di fuori di schemi logici costrittivi.
Questo tipo di immaginazione è però insidiata dalla dilagante automatizzazione. Macchine capaci di leggere archivi di memoria digitale sempre più grandi, a velocità sempre più elevate, bruciano sul tempo i limitati apparati organici umani, rendendoli subalterni. Tenendo conto di queste problematiche, Montani constata – o piuttosto auspica – nelle arti più coinvolte dalle innovazioni tecnologiche una disautomatizzazione progressiva tendente a farle assomigliare maggiormente ai sogni. Mentre per un verso la progettualità artistica mira a trarre il massimo profitto dalle tecniche in termini di plasticità, accessibilità, rimediazione, ecc., ma in una prospettiva sostanzialmente continuista, per un altro si muove verso la valorizzazione di aspetti della creatività tanto innovativi da mettere in crisi lo stesso concetto di fare (poiesis) finalizzato alla realizzazione di un’opera che sia un prodotto al tempo stesso originale ed esemplare. In questa seconda prospettiva conta certo di più l’‘ambiente associato’ (la definizione è di Simondon), ossia la particolare compenetrazione di natura e artificio creata da invenzioni tecniche significative (per questa sua raffinata analisi Montani prende gli esempi dal cinema, campo di studi che da sempre coltiva con grande autorevolezza).
Nell’alveo della filosofia kantiana
L’ambiente associato si configura d’altra parte anche come spazio politico, nel senso più ampio della parola. Montani tende a ricondurre l’intreccio di tecnologia, arte e politica nell’alveo della filosofia critica kantiana (la tecnica – riassumo rozzamente – rendendo comunicabile l’arte, ne favorisce la condivisione in un ambito comunitario, permette di riorganizzare il «senso che abbiamo in comune»). Ma il timore è che ciò, per quanto corretto e importante, non basti ancora. La tecnologia moderna ha creato scenari di dirompente novità, impensabili nell’epoca di Kant. Oggi l’individuo, valendosi della tecnologia e innervandosi nel web, vive di fatto in una dimensione planetaria. L’empowerment del corpo, grazie alla realtà virtuale o aumentata, rende superflua quella dislocazione fisica spazio-temporale nella quale in passato necessariamente si dava il Dasein. La polis antica era lo spazio delle relazioni interpersonali ‘face-to face’. Come posssiamo ridefinirla oggi, nell’èra di facebook, di twitter e della post-verità?