La prodigiosa capacità montaliana di inventare nomi ha messo in crisi persino un filologo del calibro di Dante Isella. Sì, perché nel bellissimo carteggio Eusebio e Trabucco (Adelphi, 1997) in una lettera a Contini del 20 marzo ’47 Montale fa riferimento al «poeta Fraccacreta» di lì a poco commemorato da Paolo Arcari «al teatro di Sansevero Marche». Isella, depistato dall’errore geografico, commenta: «Una commemorazione dell’immaginario poeta Fraccacreta non è ovviamente che una spiritosa fantasia». In realtà, Umberto Fraccacreta «poeta del Tavoliere» sarà ricordato davvero da Arcari il 24 marzo al teatro di San Severo, in provincia di Foggia, in occasione del trigesimo della morte. Montale aveva in mente San Severino Marche in quanto l’amico Giorgio Zampa era originario di lì. E inoltre chiedeva informazioni a Contini su Friburgo – alla cui università insegnavano sia quest’ultimo che Arcari – per un articolo commissionato dal Corriere della Sera, donde il pretesto dell’aneddoto e il «severo» monito «dopo la mia morte impedisci qualcosa di simile».
Al di là delle minuzie filologiche, l’imprecisione di Isella è cagionata da un aspetto letterario che la critica non ha ancora messo debitamente in risalto: il vivacissimo slang dei carteggi, addirittura forieri, rispetto all’opera in versi, di quel registro comico-metafisico che sarà caratteristico del «terzo tempo» di Montale. Se per imbattersi in uno spiritoso jeu de mots nelle liriche dobbiamo attendere «il lamo» di Per album sul finire della Bufera e altro, nelle lettere Eusebio inventa con largo anticipo una lingua tutta sua, capace di contagiare irresistibilmente l’interlocutore. È un idioletto formato per lo più da arcaismi e rarità lessicali, criptocitazioni, forestierismi, acronimi, composti aplologici, incroci di lingue che forgiano neologismi e soprattutto senhals (nomi fittizi), molto più ampi e talora più incisivi e gravidi di significato di quelli occorsi nelle poesie, senza i quali non è possibile conoscere appieno l’orizzonte concettuale dell’autore genovese. Prima di essere Clizia, Irma Brandeis è Miss Gatu e Miss Ratu, eteronimi e «varianti affettive liguri-piemontesi» del gatto e del topo, come sottolinea Rosanna Bettarini nell’introduzione alle fondamentali Lettere a Clizia (Mondadori, 2006), varianti che si contrappongono alla «giovane pantera peruviana» dei primi Mottetti e fanno da battistrada al topo d’avorio di Dora Markus e alla pantegana di un celebre racconto. Irma è anche Herma (da cui «il contagio Hermesco»), Theodora, my dear caterpillar o semplicemente darling, e infine my Goddes come nell’ultimo, indimenticabile biglietto. Mister Gatu – con la versione estensiva Gatu Bardolino Esq. – è a più riprese lo stesso Montale, che ribattezza gli Ossi di seppia i cuttle-fish bones, storpia Nietzsche («Also spracht Arseniustra»), scrive metà in inglese metà in italiano («la sera del thunderbolt è stata quella del dancing»).
L’ultimo tassello di questo affascinante slang è l’altrettanto meritevole Moscerilla diletta, cara Gina (a cura di Maria Antonietta Grignani e Giovanni Battista Boccardo, con uno scritto di Bianca Montale, «Quaderni della Fondazione Giorgio e Lilli Devoto», San Marco dei Giustiniani, pp. 146 e un inserto a colori di 28 pagine, € 45,00), con le lettere inedite a Drusilla Tanzi – alias Mosca, moglie del poeta – e alla fedelissima governante Gina. Montale continua ed esaspera il suo gioco pseudonimico, firmandosi Merlo, Magottino/Magottaccio (da maggot, larva), anche in accumulo «merlo magottino non fantino», featherless gull e bug secondo lo zoomorfismo tipico di molti suoi testi. Ma le invenzioni comprendono spesso i più minuti risvolti etimologici: il nome Drusilla è una forma femminile diminutiva del cognomen latino Drusus, il cui richiamo in Moscerilla (un altro neologismo sincratico) attesta la valenza di nume tutelare che irrorerà i celebri xenia di Satura, i quali situano Mosca – con la Volpe dei Carmina sacra (poi Madrigali privati) e la Gina del sapere arcaico – tra le «divinità in incognito» della tradizione pagana, una specie di pantheon in netta opposizione alla linea ebraico-cristiana di Clizia, l’Only begetter, l’«iddia che non s’incarna». Siamo in presenza, dunque, non già di semplici parole macedonia dal sapore ironico, ma di veri e propri teologemi, cioè di unità minime riconoscibili di un materiale mistagogico-teologico che innervano tutta la poetica di Montale e aprono a quella «religione privata», individuata da Paolo De Caro, contro la crisi dei valori a cavallo tra il primo e il secondo dopoguerra. Il politeismo verticistico di Eusebio si nutre di continue metamorfosi: lo stampo di Clizia ritorna in Mosca, in Volpe, in Arletta secondo quella frammentazione del tu che rende indecifrabile il dedicatario di certe poesie. Ciò è presente anche nel carteggio a nice fly. L’«Adios muchacha» di un biglietto del ’48 evoca il verso di Sotto la pioggia («Strideva Adiós muchachos, compañeros») che presume due possibili piste – e due possibili metamorfosi –, Maria Rosa Solari, la giovane pantera, e Pilar, figura a dir poco enigmatica.
Il conio verbale sa essere anche molto pop. «Dropperò a Milano», «ho spiccato», «tutto è molto funny». O in una missiva a Gina: «Oggi ho mangiato un bollito fe-no-me-nale come dice Pippo Baudo». Le lettere montaliane, lungi dal rappresentare un elemento puramente documentario, sono il risvolto di un’arte di parola inscindibile dall’opera, e restituiscono la fantasia, il mistero e la forza creativa nello slancio nominale del suo autore.