«Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione», scrivevano 50 anni fa i 40 vescovi che il 16 novembre 1965, durante la fase finale del Concilio Vaticano II, firmarono il Patto delle catacombe. «Io non vivo nel lusso, il mio appartamento è di 296 metri quadrati, e non ci vivo da solo, abito con una comunità di tre suore che mi aiutano», dichiara oggi l’ex segretario di Stato vaticano di papa Ratzinger, il cardinale Tarcisio Bertone.

La distanza che separa le due affermazioni mostra con evidenza il cammino enunciato ma mai percorso fino in fondo dall’istituzione ecclesiastica; e indica soprattutto la coesistenza, nella stessa Chiesa cattolica, di due modi opposti di vivere il Vangelo, perlomeno in ordine al tema della povertà e dell’uso dei beni, oggi come ieri.

Autunno 1965, il Concilio Vaticano II è ormai giunto alle ultime battute. Il tema della «Chiesa dei poveri», lanciato da Giovanni XXIII, è stato poco presente nel dibattito in assemblea, ancor meno nei documenti ufficiali, anche per il timore, in clima di guerra fredda, di fare un favore a Mosca e danneggiare l’Occidente capitalista.

Proprio per questo, il 16 novembre 1965, il vescovo brasiliano Helder Camara, l’argentino Enrique Angelelli (che poi verrà ucciso durante gli anni della dittatura) e altri 38 padri conciliari si danno appuntamento alle catacombe di Domitilla. «Visto che Paolo VI non vuole parlare di povertà, lo facciamo noi», si dicono, e così sottoscrivono quello che passerà alla storia come Patto delle catacombe, un elenco di impegni individuali di povertà da mettere in pratica nel proprio ministero pastorale: la rinuncia ad abiti sfarzosi, a titoli onorifici, a conti in banca, ad abitazioni lussuose.

Fra loro c’è anche mons. Luigi Bettazzi, oggi 92enne, l’unico sopravvissuto di quel gruppo, all’epoca vescovo ausiliare del card. Lercaro a Bologna, che negli anni ’70 diventerà famoso per uno scambio di lettere con il segretario del Pci Berlinguer.

Mons. Bettazzi, come è nato il «Patto delle catacombe»?

Al collegio belga di Roma si riuniva regolarmente un gruppo informale di una cinquantina di vescovi, autodefinitosi della «Chiesa dei poveri», che rifletteva sul tema della povertà nella Chiesa. Paolo VI non gradiva che al Concilio si parlasse della Chiesa dei poveri, perché temeva che il dibattito finisse in politica. Diceva che lo avrebbe affrontato egli stesso in un’enciclica, che sarebbe poi stata la Populorum progressio. Allora il gruppo della «Chiesa dei poveri» decise di prendere l’iniziativa.

Cosa fecero?

Si accordarono per celebrare una messa alle catacombe di Domitilla e di formalizzare impegni concreti sul tema della povertà che ciascun vescovo avrebbe personalmente assunto una volta tornato nella propria diocesi. Io venni a saperlo e ci andai.

E firmò il Patto…

Il vescovo di Tournai, mons. Himmer, presiedeva la messa. Alla fine lesse questo elenco di impegni: non abitare in edifici lussuosi, rinunciare agli abiti sfarzosi, ai titoli onorifici, ai conti in banca, stare vicino ai poveri, ai lavoratori, agli emarginati.

Firmammo in 40, ci impegnammo a farlo sottoscrivere ad altri, e in poco tempo ci furono circa 500 adesioni. Poi il cardinal Lercaro lo portò al papa, insieme ad altri materiali sul tema della povertà che, su richiesta riservata di Paolo VI, aveva elaborato con un piccolo gruppo di vescovi.

Come mai al Concilio si parlò poco di questo tema, che infatti è scarsamente presente nei documenti finali?

Paolo VI non voleva che venisse trattato esplicitamente. Eravamo in piena guerra fredda, c’era l’Unione sovietica e il comunismo, e il papa aveva paura che parlare di Chiesa dei poveri fosse interpretato in chiave anti-occidentale, una presa di posizione contro l’Occidente atlantico e capitalista.

E poi c’erano gli episcopati ricchi…

Certo, perché chi guidava i lavori erano gli episcopati del nord Europa: Germania, Francia, Belgio e Olanda, poco sensibili al tema della Chiesa dei poveri.

Bisognerà aspettare la teologia della liberazione…

Esattamente. Nel 1967 Paolo VI pubblicò la Populorum progressio, anche sulla base dei materiali che gli aveva fornito Lercaro, che è un’enciclica molto forte sul piano sociale ma non tratta espressamente il tema della povertà. Invece, nel 1968, con l’assemblea dei vescovi latinoamericani a Medellin, per la prima volta si parla di «scelta preferenziale dei poveri», ovvero guardare ed affrontare la realtà dal punto di vista degli esclusi.

Cosa ne è stato del Patto delle catacombe in questi 50 anni?

Ognuno di noi ha cercato di fare del proprio meglio nella propria diocesi, ma senza collegarsi con gli altri.

Oggi che Chiesa viviamo?

Mi sembra che papa Francesco, dopo 50 anni, stia portando avanti il richiamo della Chiesa dei poveri e della scelta preferenziale dei poveri. Per questo la sua azione pastorale incontra molte resistenze.

Resistenze soprattutto interne…

Sì. Del resto cambiare una struttura è molto più difficile che non farne una nuova, come è difficile far cambiare una certa mentalità alle persone….

Un impegno concreto per la Chiesa da attuare subito?

Innanzitutto la trasparenza e la veridicità dei bilanci economici e finanziari, a tutti i livelli, dal Vaticano alla singola parrocchia. E poi un’autentica comunione, perché nella Chiesa il clericalismo è molto forte.

È pensabile che la Chiesa rinunci davvero a beni e patrimoni?

Se leggo gli ultimi documenti di papa Francesco, mi pare che si vada in questa direzione. Certamente l’operazione deve essere portata avanti con saggezza. Lo Ior, per esempio, è un problema che non può essere risolto con un taglio netto, bisogna vedere come riuscire a trasformare quello che è diventato un potere finanziario in un servizio, ciò che in realtà dovrebbe essere. Per fare questo ci vuole tempo e persone adatte.

Papa Francesco potrà farcela?

Lo spero. È molto difficile rinnovare una Chiesa che per secoli è stata un potere, con un papa re addirittura.