Il dibattito intorno agli anticorpi monoclonali ha creato divisioni tra comunità scientifica, classe politica e opinione pubblica che non sarà facile recuperare. Ha rischiato di farne le spese l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), che nella pandemia ha avuto un ruolo scomodo: da un lato favorire l’accesso alle cure, dall’altro vigilare affinché l’emergenza non fosse il pretesto per introdurre farmaci poco sicuri o inefficaci. A guidare l’agenzia in questo frangente è stato Nicola Magrini. Prima di dirigere l’Aifa era il responsabile del dipartimento di farmaci essenziali all’Oms. Tra le sue competenze, verificare che l’uso di un farmaco risponda solo alle evidenze scientifiche valutate nel modo più rigoroso.

Per gli anticorpi, quali evidenze ci sono?

Il parere della Commissione tecnico-scientifica (Cts) dell’Aifa è stato a mio avviso molto chiaro: ci sono studi di piccole dimensioni, pubblicati di recente e studi ancora in corso che mostrano stime incoraggianti nei pazienti in fase precoce di malattia ma basate su pochi dati. Ci sono anche studi conclusi anzitempo per assenza di beneficio o futilità nei pazienti ospedalizzati che hanno mostrato che i monoclonali non funzionano nei pazienti più gravi. Quindi non appena il 21 gennaio scorso sono stati pubblicati due studi clinici rispettivamente della Eli Lilly e della Regeneron, produttori di due diversi cocktail di monoclonali, l’interesse è aumentato pur nella immaturità dei dati disponibili. Si è cominciato a vedere una tendenza al miglioramento clinico ma ci si basa comunque su dieci o venti pazienti.

Però si è parlato di una riduzione del 70% di ospedalizzazione e morte.

Questa è la parte comunicativa dolente o semplicistica, e anche fuorviante: il 70% significa una riduzione relativa calcolata sui soli dati di ospedalizzazione, perché purtroppo non ci sono dati sulla mortalità: nel gruppo di controllo nove pazienti su 156 hanno avuto bisogno del pronto soccorso o di un ricovero, il 5,8% rispetto all’1-2 per cento nel gruppo dei monoclonali. Una riduzione per l’appunto relativa del 70%. Per ragionare e prendere decisioni servono i numeri assoluti o le frequenze naturali, mentre le misure relative servono per esprimere i rischi e calcolare la statistica. E possono diventare banali tecniche comunicative, o addirittura di marketing. Nei soggetti ad alto rischio questi dati migliorano ed ecco quindi la decisione positiva di apertura.

È vero che si potevano autorizzare senza il parere di Ema?

Fino al 21 gennaio a mio avviso non vi erano i requisiti minimi per farlo. E comunque rappresenta un forte indebolimento delle procedure standard europee di registrazione. Ora che l’Ema ha iniziato la valutazione per i due cocktail di monoclonali, questa scelta eccezionale dell’Italia, come quelle di Germania e Francia, è più giustificata, anche perché il decreto di autorizzazione è temporaneo. In un mondo normale l’Aifa fa parte dell’Ema (l’Agenzia europea del farmaco, ndr) e per approvare i farmaci al di fuori di Ema servono procedure straordinarie. Chi dice che si poteva fare sembra prendere a modello gli Stati Uniti dove esiste una diversa legislazione e dove anche nella passata amministrazione politica la pressione politica esercitata sulla Food and Drug Administration è stata molto forte e spesso impropria.

Che impatto hanno avuto queste terapie nei paesi che le hanno autorizzate?

Attualmente i Paesi che hanno attivato questo uso di emergenza sono pochi. Gli Usa per primi si sono scontrati con la complessità di queste somministrazioni domiciliari o in dimissione ospedaliera, e dai dati disponibili gli anticorpi risultano largamente sottoutilizzati. Il tempo relativamente lungo necessario per l’infusione endovenosa e l’osservazione le rendono terapie di un certo impegno organizzativo.

Si è detto che la Eli Lilly avrebbe regalato i farmaci all’Italia.

Questa affermazione è già stata più volte smentita. Siamo stati contattati dall’azienda e abbiamo attivato un’audizione alla Commissione tecnico-scientifica per valutare sia la possibile effettuazione di uno studio clinico comparativo sia possibili modalità di accesso o uso compassionevole (che in Italia avrebbe significato ricevere una donazione che non è mai stata proposta). Ma la ditta non ha mostrato interesse a dar seguito a questa modalità. Come Aifa siamo interessati a promuovere uno studio clinico comparativo, di cui vi sarà grande bisogno dati i numerosi monoclonali di diverse ditte disponibili. Attualmente sono due, ma presto anche altre aziende come Gsk, AstraZeneca e Celltrion pubblicheranno i dati di studi avanzati su nuovi anticorpi monoclonali.

Chi ha fatto pressione sulla Commissione tecnico-scientifica: la comunità scientifica, la politica in cerca di consensi o le aziende?

La Commissione è un gruppo di professionisti e ricercatori liberi e privi di conflitti di interessi, con un’indipendenza garantita dall’Aifa, che ha lavorato incessantemente durante la pandemia: la legge entrata in vigore a marzo 2020 affida a Aifa l’approvazione di tutti gli studi clinici sul Covid19 in Italia. La comunità scientifica internazionale è stata una grande comunità globale e anche solidale, che non ha cercato il consenso e, anzi, ha guidato la nostra società nella direzione giusta. E questo anche grazie all’Oms, al suo ruolo, agli studi promossi e al recente rientro nel multilateralismo degli Stati Uniti, con Fauci che ha salutato il rientro con un bellissimo discorso. La ricerca del consenso che una certa politica ha espresso ha invece creato interferenze e problemi ma credo che a questo si possa – anzi, si debba – resistere. Con l’industria le agenzie regolatorie debbono avere il loro ruolo e una relazione chiara di controllore e controllato.

Come conciliare l’apertura a nuove ricerche e la cautela nella vigilanza ai tempi di pandemia?

Le emergenze richiedono maggiore flessibilità e maggiore capacità strategica, ma sempre all’interno degli standard regolatori definiti. Questa crisi pandemica ci ha insegnato chiaramente che solo gli studi randomizzati comparativi ci hanno consentito di fare progressi e accettare o scartare le varie ipotesi e definire nuovi standard di cura. Sui vaccini si sono fatti grandi sforzi anche in termini di studi di grandi dimensioni e credo che si debba fare lo stesso anche per gli anticorpi monoclonali per fare i necessari progressi. È un ambito in rapida evoluzione che richiederà la definizione di nuovi cocktail più efficaci e più fattibili. Non è facile, ma credo sia possibile conciliare gli standard metodologici ed etici più elevati con un accesso rapido alle cure. A questo proposito, l’informazione data al pubblico deve essere basata sulle migliori evidenze e non generare aspettative irrealistiche. Non dimentichiamoci, ad esempio, che presto l’Aifa si esprimerà anche su nuove terapie basate su farmaci esistenti, come ad esempio la colchicina e l’ivermectina che sembrano avere dati promettenti.

Su cosa bisogna puntare per migliorare la situazione attuale?

Va creato un clima di fiducia nella popolazione affinché si comprenda bene il valore delle varie terapie disponibili, il valore fondamentale del nostro servizio sanitario nazionale universalistico e il contesto europeo di questa pandemia, che è un fenomeno planetario. Andrebbero fatti due investimenti speciali e dedicati: un forte investimento in reti e piattaforme di ricerca clinica, capaci di reclutare rapidamente i pazienti su tutto il territorio nazionale, in modo da fare meno ricerche, ma più grandi e mirate, di livello europeo e con uno spirito collaborativo e non competitivo. L’Italia ha alcune eccellenze in reti specialistiche di ricerca clinica già ben organizzate che andrebbero rafforzate sotto l’ombrello della emergenza Covid19 e del nostro servizio sanitario. Il secondo grande investimento da fare riguarda l’informazione indipendente e affidabile. Dovrebbe rappresentare per l’Aifa e per la nostra sanità un ambito prioritario su cui investire, per avere una capacità di elaborazione, promozione e diffusione di informazioni chiare, affidabili e critiche di cui tutti potrebbero fidarsi. Dare accesso a tutti alle migliori evidenze scientifiche può creare fiducia, come spiegano sempre i miei ex-colleghi all’Oms. Penso che ce la possiamo fare.