Con un ritardo di due giorni rispetto alla decisione, è stato pubblicato il parere esteso della Commissione tecnico-scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco che ha dato il via libera all’uso anche in Italia degli anticorpi monoclonali prodotti dalle aziende Eli Lilly e Regeneron. Nonostante si tratti di un parere favorevole, il documento dimostra le tante incognite che pesano su questi farmaci ancora sperimentali.

L’approvazione da parte della Commissione è stata decisa «a maggioranza» dei membri della commissione e «considerando l’immaturità dei dati e la conseguente incertezza rispetto all’entità del beneficio offerto da tali farmaci», che rappresentano «prove di efficacia ancora preliminari». Il parere potrebbe essere rivalutato «sulla base delle nuove evidenze disponibili, dell’arrivo di nuovi anticorpi monoclonali o altri farmaci, e delle eventuali decisioni assunte in merito dall’Agenzia Europea del Farmaco (Ema)». Proprio l’altroieri, Ema ha comunicato l’avvio della valutazione dei dati presentati dalle aziende in vista di un parere valido a livello continentale.

I DATI DISPONIBILI finora sono piuttosto scarsi. Nel gruppo di pazienti che ha ricevuto il cocktail di anticorpi della Regeneron, sei pazienti su 182 hanno avuto bisogno di una visita medica per esaminare sintomi in aggravamento, contro sei su 93 nel gruppo che ha ricevuto un placebo. Simili i risultati relativi all’anticorpo bamlanivimab di Eli Lilly: nel campione di soli 101 pazienti con sintomi lievi trattati con gli anticorpi si è registrato un ricovero, contro i nove (ma su un numero maggiore di pazienti, 156) nel gruppo del placebo. Con numeri così piccoli è difficile distinguere l’impatto del farmaco da una semplice fluttuazione casuale. Gli studi in realtà hanno riguardato principalmente l’effetto degli anticorpi sulla carica virale, più facile da studiare su campioni limitati. Ma come scrivono i ricercatori che hanno pubblicato i dati sul Journal of the American Medical Association, l’anticorpo bamlanivimab della Eli Lilly non produce «nessuna differenza significativa nella riduzione della carica virale».

Alla luce di dati così incerti, la Commissione tecnico-scientifica dell’Aifa sottolinea «l’assoluta necessità di acquisire nuove evidenze scientifiche che consentano di stimare più chiaramente il valore clinico degli anticorpi e definire le popolazioni di pazienti che ne possano maggiormente beneficiare». Gli anticorpi monoclonali prodotti dalle due aziende Eli Lilly e Regeneron non saranno infatti a disposizione di tutti i pazienti con sintomi lievi, ma solo di quelli con almeno due fattori di rischio, tra cui l’età superiore ai 65 anni, deficit immunitari e altre patologie di una certa gravità. La limitazione della popolazione interessata deriva anche dalla effettiva disponibilità dei farmaci.

Secondo Aifa, il problema sussiste soprattutto per quelli prodotti dalla Eli Lilly. La stessa azienda ammette che il farmaco è disponibile solo nel dosaggio di 700 mg, la cui efficacia è limitata, come visto. Nei test, l’azienda ha ottenuto risultati più promettenti combinando il bamlanivimab e l’etesevimab (un altro anticorpo monoclonale). Ma secondo quanto l’azienda ha riferito all’Aifa, il cocktail non è attualmente disponibile.

SI SGONFIA COSÌ la campagna a favore degli anticorpi monoclonali montata sui media (soprattutto tv e social network) da alcuni medici e scienziati, guidati dal virologo Guido Silvestri della Emory University di Atlanta popolarissimo su Facebook, e assecondata da gran parte del mondo politico, compresi il ministro della salute Speranza e il suo sottosegretario Sileri: ora che Aifa ha approvato gli anticorpi “salvavita”, si scopre che quelli che funzionano non sono disponibili. Eppure, proprio Silvestri continua a chiedere le dimissioni del direttore dell’Aifa Nicola Magrini, accusandolo di aver ritardato di due mesi l’approvazione degli anticorpi monoclonali della Eli Lilly.

IN OTTOBRE, L’AZIENDA aveva proposto una sperimentazione con diecimila dosi dell’anticorpo bamlanivimab, quello approvato negli Usa, anche all’Italia. A presentare la proposta all’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) era stato proprio Silvestri, che per sua stessa ammissione gode di ottime amicizie nei vertici dell’azienda. Ma all’epoca non erano disponibili neppure gli scarsi dati di cui siamo al corrente oggi. L’Aifa, perciò, soprattutto per volere di Magrini, rifiutò l’offerta, in attesa che fosse l’Ema a fornire un parere sulla sua efficacia.

Probabilmente fu la scelta giusta. Se l’Aifa avesse autorizzato in ottobre il solo bamlanivimab (come era stato proposto allora sull’esempio statunitense) avrebbe approvato un farmaco poco efficace e forse dannoso a causa della difficoltà di somministrazione. Il farmaco, infatti, richiede un’infusione della durata di tre ore da effettuarsi in ambito ospedaliero. L’autorizzazione avrebbe dunque spinto diecimila pazienti infetti con sintomi lievi in ospedali già sovraccarichi in piena seconda ondata, mettendo a rischio loro, i sanitari e gli altri pazienti. Tutto, come ora sappiamo, con scarsi benefici clinici.

D’altronde, raccogliere evidenze scientifiche solide prima di autorizzare un farmaco sperimentale dovrebbe essere il ruolo principale dell’Aifa. Ma questa attività di vigilanza si sta rivelando insostenibile per una classe politica disposta a offrire al pubblico terapie senza evidenze sperimentali pur di raggranellare qualche consenso. E per una classe medica sempre più abituata a esprimersi attraverso i media piuttosto che sulle riviste scientifiche.