Solo pochi mesi fa, le cure a base di anticorpi monoclonali sembravano l’arma finale contro il Covid-19, in grado di trasformare un virus subdolo e incontrollabile in una malattia curabile.

Le varianti stanno mettendo in crisi queste terapie. Negli Usa, lo Health and Human Service Departments – il ministero della sanità locale – ha fermato la distribuzione degli anticorpi monoclonali anti-Covid19 bamlanivimab e etesevimab, sviluppati dalla casa farmaceutica Eli Lilly, perché inefficaci contro le varianti del coronavirus. È probabile che ora anche l’Italia decida per la sospensione, solo pochi mesi dopo averne autorizzato l’uso tra mille polemiche. La distribuzione delle varianti negli Usa è infatti la stessa dell’Italia, con la variante “alfa” nettamente dominante, la “delta” in rapida espansione e una parte non trascurabile di altri ceppi meno contagiosi ma più problematici per il sistema immunitario.

Gli anticorpi monoclonali, prodotti in laboratorio e iniettati per endovena, mirano a sostituire gli anticorpi naturali. Quelli utilizzati finora contro il Covid sono prodotti da due aziende statunitensi, la Regeneron e la Eli Lilly. Il cocktail di anticorpi della Eli Lilly era stato approvato negli Usa a febbraio con un provvedimento di emergenza della Food and Drug Administration sulla base di evidenze scientifiche incoraggianti ma limitate a un numero molto piccolo di pazienti. Sperimentazioni analoghe sono state avviate in diversi Paesi europei. Ma è soprattutto in Italia che il loro uso ha spaccato l’opinione pubblica, con esperti (e non) impegnati in tv e sui social per promuoverne l’adozione nonostante la scarsità di dati a loro supporto. A guidarli, l’immunologo Guido Silvestri della Emory University di Atlanta, notissimo in rete grazie alla sua pagina Pillole di ottimismo.

Già a ottobre 2020, Silvestri aveva avviato una campagna martellante affinché il governo italiano acquistasse il farmaco senza aspettare l’autorizzazione dell’Agenzia Europea del Farmaco (Ema), che infatti non è mai arrivata. Infine, in piena seconda ondata, con i vaccini ancora di là da venire e decine di migliaia di nuovi contagi al giorno, la pressione mediatica aveva indotto il governo a destinare all’acquisto di anticorpi monoclonali ben 400 milioni di euro, una cifra sufficiente a comprare decine di milioni di dosi di vaccino.

Per la verità, uno sparuto gruppo di esperti aveva ricordato al governo l’opportunità di attendere evidenze scientifiche più solide prima di avviare un acquisto così importante sostanzialmente a scatola chiusa. Già nei primi studi gli anticorpi avevano mostrato una tendenza preoccupante a stimolare lo sviluppo di varianti nei pazienti trattati. Oltre alle incertezze sull’efficacia, pesava anche la difficoltà di somministrazione: la terapia prevede infusioni intravenose in ambiente ospedaliero in pazienti fragili ma con sintomi lievi, nonostante la probabilità di aggravarsi rimanga relativamente bassa e il notevole rischio di creare nuovi focolai. Ma la pressione mediatica via Facebook aveva avuto la meglio.

I dubbi degli scettici si sono rivelati fondati. Dopo la loro autorizzazione, gli anticorpi Eli Lilly costati così tanto hanno avuto un impatto limitatissimo sulla pandemia: secondo l’ultimo monitoraggio dell’Aifa, sono stati somministrati a circa quattromila pazienti in tutto, circa lo 0,7% dei contagiati. Gli anticorpi Regeneron, che mantengono la loro efficacia contro le varianti, sono stati usati solo dallo 0,3% degli infetti. Nell’ultima settimana, le prescrizioni sono state appena 57 in tutto. E molte dosi già acquistate sono destinate a giacere fino alla scadenza nei frigoriferi degli ospedali.