La Fondazione Beyeler nei campi alle porte di Basilea, costruita da Renzo Piano tra il 1991 e il 1997, sta presentando negli ultimi anni rassegne dal respiro internazionale incentrate su grandi artisti: ma con un taglio del tutto originale. Si è passati dal Degas tardo (2013) al Richter scelto da Richter (e da Hans Ulrich Obrist, 2014), fino al Courbet dell’anno scorso, che aveva alle spalle una mostra al Grand Palais di Parigi, di qualche anno precedente, memorabile, come lo è stata quella del ’77, pure al Grand Palais, per chi ha avuto la fortuna di vederla.
Pochi anni fa, al Grand Palais
Allo stesso modo ora la Beyeler si presenta con un Monet, dopo che pochi anni fa, sempre al Grand Palais, si era vista una monografica sul pittore, definitiva per chi non ha potuto godere di quella, nella stessa sede, del 1980. Ma il segreto della Fondazione svizzera, in questo caso, è di non giocare sulla competitività muscolare del piccolo che vuol fare quello che solo il grande si può permettere. Quindi di non incentrare l’esposizione su una finta monografica – del resto se ne sono viste molte anche in Italia, su Monet: da Treviso a Brescia, con il finto barchino che usava il pittore per dipingere sulla Senna, da Ferrara a Torino, a partire dalle collezioni del Musée Marmottan o del Musée d’Orsay, fino a quella già annunciata al Vittoriano di Roma, con opere da Giverny – ma di provare un taglio più oculato. Il curatore della fondazione, Ulf Küster, punta l’attenzione su un segmento preciso della storia di Monet e non proprio di quelli più ritualizzati. Si va in sostanza dai primissimi anni ottanta alla metà degli anni novanta dell’Ottocento, quando Monet, dopo la morte della prima moglie Camille (1879), raggiunta una certa indipendenza finanziaria, intraprende una serie di viaggi dalla costa mediterranea franco-italiana a quella atlantica francese passando per tutto il corso della Senna, e individuando quello che diventerà uno dei punti nodali, esistenziali e pittorici, della stagione a seguire: Giverny, tra Senna ed Epte. Ma non mancano, nel sottofinale, le incursioni oltre Manica, a Londra, negli anni a cavallo tra Otto e Novecento.
Tutto questo non si arena dal punto di vista espositivo nella trappola delle tante varianti della facciata della cattedrale di Rouen o dei pioppi ai bordi dell’Epte, ma si tentano di instaurare, per nuclei tematici, relazioni formali e assonanze, poetiche o concettuali, tra i vari «motivi» di Monet (il titolo della mostra è infatti Monet und seine Motive). L’inizio del percorso espositivo pone, appunto, una facciata della cattedrale di Rouen, della Beyeler, vicino a un covone dei dintorni di Vernon, conservato a Zurigo, a sua volta di fronte a una tela raffigurante i paraggi di Giverny, del museo di Boston. La sequenza successiva sugli alberi mostra come questi anni siano fondamentali nel percorso dell’artista e come la scelta curatoriale abbia colto proprio un momento cruciale. Si va dal Vétheuil visto da Lavacourt (1879), del d’Orsay – che trent’anni fa avrebbe avuto un posto d’onore nel manuale di storia dell’arte di Argan, rientrando a pieno titolo nell’immagine che si voleva dare dell’artista e dell’Impressionismo, plasmata su quella cinematografica della Partie de campagne di Renoir figlio – e si arriva all’Inondazione a Giverny (1896), tutto giapponista e Whistler. Si capisce che questo è il Monet cui il Novecento guarda di più, fino alle avanguardie, trans comprese. E si capisce anche perché il più grande storico dell’arte del Novecento, Roberto Longhi, avesse delle difficoltà nei confronti del pittore.
La sequenza de La débâcle della Senna mette i brividi, con prestiti dal Giappone (ah, Pola!) e dall’America, dove ogni scelta è una scelta di un quadro preciso e non qualsiasi, contro ogni logica del mostrificio italiano. E non mancano pure i prestiti da privati, ma qui si ringrazia soltanto della possibilità concessa.
La prima puntata sul Mediterraneo via Liguria (a Basilea si possono vedere ben cinque pezzi di questo soggiorno, tra cui una stupenda veduta di Bordighera, che fa venire in mente la mostra genovese sullo stesso tema del 2010-’11) serve a Monet per rischiarare la tavolozza che, curiosamente con poche varianti, utilizza anche per le luci atlantiche, in particolare quelle impiegate per ritrarre le falesie tra Varengeville e Pourville. Sur la falaise, au Petit Aille (1896), di collezione privata, evoca subito i monotipi e i paesaggi dei primi anni novanta di Degas (in lieve anticipo rispetto a Monet), visti qui a Basilea quattro anni fa; e così pure le due lisergiche Matinée sur la Seine (1897), per non dire dell’Île aux orties, del Met, sempre dello stesso anno.
Una specie di scoglio-monolite
Ma il quadro più sconvolgente della mostra raffigura Les pyramides de Port-Coton, di collezione privata zurighese, una specie di scoglio-monolite, totemico al limite del fallico, che si erge in mezzo a un mare verde smeraldo, finendo per ferire gli occhi di chi guarda. Come è diverso da quello, solo apparentemente analogo e tanto meno prepotente, del Museo Puškin. La sequenza londinese potrebbe essere tutta girata sul panneau pédagogique a raccontare del progresso industriale, dello sfruttamento e dell’inquinamento atmosferico, della nascita dello smog… Ma anche qui non si casca nella retorica pietistica. Il grigio piombo appena rischiarato da pochi colpi luminosi, materici, quasi scultorei, per rendere la corporeità della luce sulla stesura piatta, crea combinazioni ritmate, che si accordano all’indovinatissimo grigio di fondo dei pannelli.
Verrebbe quasi da dire che quello che finisce per disturbare, in questa mostra, sono le figure umane dentro i paesaggi di Monet, anche se ce ne sono pochissime: la donna sulla terrazza a Vétheuil, dove i fiori e l’erba fanno già pensare alle strisciate con i tubetti di colore sulle tele di Schifano, il figliastro e il figlio ai bordi dell’Epte, nella tela di Ottawa, e tre figlie – dei sei della seconda moglie di Monet, Alice Hoschedé – su una Norvégienne. Ma anche in un quadro del genere ci si rende conto che Monet non è mai decorativo. Qui, come in ogni dipinto in mostra, si sente l’urgenza espressiva puntata sull’esterno e rimbalzata su se stesso, secondo un procedimento che funziona almeno in questa fase. Come succede guardando, fra dentro e fuori, dai propilei del museo di Renzo Piano, con la bellissima luce naturale che trascolora sui quadri. E forse, come dice Hockney nel suo nuovo libro (Una storia delle immagini, Einaudi), qui sono «le immagini che ci aiutano a vedere».
Poi lo sguardo di Monet si gira definitivamente su se stesso ed è la volta delle Ninfee, che nel percorso della mostra sono fuori dal sacco della cronologia. In questi fiori d’acqua (peraltro i più belli sono quelli Beyeler) viene da evocare pavlovianamente l’informale, ma anche molto altro fino ai giorni nostri, chiudendo con la banalità che tra questo Monet e il tardo Degas è difficile dire chi parla di più alla nostra epoca, con buona pace di Arcangeli e Argan.