L’idea di partenza è bizzarra. Ma non troppo. Prendere il repertorio della madre di tutte le cantanti italiane, selezionare non necessariamente i pezzi più noti al grande pubblico, campionarne le tracce rielaborandole in chiave rap. Mondo Marcio, al secolo Gian Marco Marcello, è l’autore dell’azzardo nel quale ha coinvolto Mina, dapprima proponendole una rilettura di un suo hit dei 60 Se un bacio è troppo poco (operazione già tentata anni or sono da Elvis Costello), e poi, avuto il benestare da Lugano, esteso su ben dodici canzoni. Nella bocca della tigre (Universal) – in uscita il 15 aprile – è il risultato di questa alchimia fra vintage e console, in cui autore e diretta interessata, sembrano essersi divertiti. E molto.

Idea bizzarra, lo rimarchiamo, perché se è pur vero che la cantante cremonese è centrale nell’immaginario nazional popolare, in realtà Mina ha bazzicato stili e tendenze, passando senza colpo ferire dal pop al rock, dal canto sacro alla sinfonica, facendosi addirittura accompagnare dagli Afterhours. E guarda caso Eli-mina-zione, posto quasi a chiusura del disco, campiona Dentro Marilyn della band di Manuel Agnelli nella versione contenuta in Leggera (1997)

«L’idea centrale – sottolinea Mondo Marcio – è che non doveva essere un’operazione commerciale. Quindi tranne Parole parole la scelta è caduta su pezzi che solo il fan incallito conosce». Ovvio quindi che la parte più complessa è stato scegliere da una discografia sterminata che dal 1958 ad oggi ha prodotto almeno un titolo all’anno: «Ci ho messo un mese, lavorando sui nastri che Massimiliano Pani mi ha spedito da Lugano. Dovevo capire cosa funzionava e cosa meno».

A denti stretti estrapola un frame da Più di così che Felisatti-Salerno scrissero per il doppio Catene (1984) e al termine dell’inciso Mondo sembra rifare il verso a Grandmaster Flash: «Eh sì. Mi piaceva sottolineare il fatto che la buona musica non ha stili e generazioni: Mina, poi io classe 86 e Grand Master Flash che lanciato un messaggio nei primi anni 80. L’idea è di cancellare le barriere». Non cover ma canzoni che nascono sopra altre canzoni: «Nella bocca della tigre arriva in un momento topico della mia carriera. Ero un po’ annoiato perché quello che ascolto in radio, e anche quello che esce dal mio studio, si rifà al solito misto elettronico pop con abuso di auto tune. E mi interessava far capire che il rap e l’hip hop è altra cosa rispetto a quello che viene percepito oggi: musica per giovani, un po’ fatua e ballabile. Certo è musica divertente, ma in realtà è nata in America per dare voce a chi non ne aveva. Un messaggio politico molto forte. The voice of the voice «la voce delle voci», come si diceva».

Mina è il fil rouge per far interagire attraverso la sua icona il canto popolare e l’hip hop….:_ «Ma è potuto accadere perché lei è rivoluzionaria e ha sempre scelto di mescolare le carte e i generi. Altrimenti non sarebbe stato possibile….». L’incontro fisico fra i due protagonisti del disco non c’è stato: «Ci siamo sentiti per telefono, anzi è lei che mi ha chiamato per farmi i complimenti dopo che le avevo inviato Un bacio è troppo poco. Ed è stata lei a spingermi ad estendere il lavoro su altre canzoni».

«Ho evitato la galera, schiavo della mia carriera devo fare i conti con un banchiere», rappa Mondo alternandosi con i versi di Bugiardo e incosciente. Mentre Fosse vero (Canarino mannaro, 1994) diventa un inno hip hop alla fragilità . «Se uno ci pensa, io ho fatto un’operazione che in realtà si lega alla tradizione originale del rap. Anzi, è un lavoro che rispetta la tradizione al cento per cento, perché agli inizi ogni brano doveva essere campionato da qualcos’altro. Anzi, all’inizio gli Mc rappavano senza nemmeno un lavoro di post produzione dietro…».

Se è chiaro l’intento quasi filologico, la percezione che arriva dall’esterno è che il rap e l’hip hop, ora nelle grazie dei talent con i vari Moreno o Rocco Hunt, sia finito nel tritacarne delle major, ormai lontanissimi parenti delle posse e dei centri sociali… «Non voglio giudicare. Però diciamo che in progetti come il mio, o in passato J-Ax, volevano raccontare storie di chi non ha niente, uno spaccato chiamiamolo anche sociale, parlando di disagio e periferie. Testi che non trovo invece in molte produzioni più recenti…».