Nelle società del benessere siamo abituati al fatto che il cibo si perda e con esso anche il senso del suo valore.

Lo spreco alimentare è la piaga etica, sociale, ambientale della post modernità, frutto grottesco e crudele del neoliberismo portato all’estremo (in Italia, martedì 5 febbraio, è la giornata nazionale contro lo spreco alimentare).

Viene sprecata almeno 4 volte la quantità di cibo sufficiente a sfamare gli 815 milioni di denutriti ancora presenti al mondo.

Secondo diversi studi, la prevenzione degli sprechi oltre a intervenire nell’immediato sul bilancio economico dei paesi più deboli, sarebbe garanzia di sicurezza alimentare per i 9,5 miliardi di persone che presto vivranno sulla Terra.

Ma le cifre strabilianti ed assurde che accompagnano questo fenomeno oltre a determinare gravissime perdite economiche pesano anche sul nostro fragile pianeta e le sue risorse, che vengono sottratte inutilmente con abbondante produzione di emissioni che causano la febbre della Terra. Per non parlare delle enormi quantità di acqua e fertilizzanti impiegate nella produzione di cibo che non raggiungerà mai la tavola. Stiamo quindi per assurdo sfidando i limiti del pianeta in termini di cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, consumo di suolo, acqua ed energia, in gran parte per non farcene nulla.

Capire come e perché siamo arrivati a tutto questo necessita una visione d’insieme che prende in considerazione fattori economici, sociali, politici, culturali e la loro relazione con l’ambiente.

Lo fa lo studio molto articolato realizzato dal ricercatore ecologo Giulio Vulcano, pubblicato in parte anche da Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.

Il principale colpevole è il sistema di produzione alimentare agro-industriale dentro il quale ci siamo radicati economicamente e culturalmente, fondato sull’impiego di fonti fossili di energia e sostanze chimiche di sintesi, sulla finanziarizzazione, i commerci internazionali, la concentrazione dei mercati e l’occultamento dei costi ambientali e sociali.

Un sistema legato a doppio filo con il modello capitalista che per sua natura necessita la sovrapproduzione e lo spreco.

Lo spreco alimentare si rivela infatti un fenomeno funzionale all’espansione del sistema economico e commerciale dominante, che ha allontanato sempre più i luoghi di produzione dai luoghi del consumo, disconnettendo le persone fisicamente, economicamente e cognitivamente dal cibo e dai processi connessi.

La filiera è sempre più lunga e fuori controllo: presenta perdite a ogni passaggio e a un incremento minimo di un fabbisogno reagisce con eccessi di produzione, facendo aumentare esponenzialmente gli sprechi e di conseguenza i danni all’ambiente.

Un interessante studio promosso dall’Unep (programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) ha classificato i settori industriali globali in base al danno ecologico creato al capitale naturale, facendo emergere che tra i primi 5 settori regionali che creano maggior danno ecologico globale 3 sono agroalimentari: l’allevamento di bestiame in Sudamerica e le coltivazioni di frumento e riso nell’Asia del Sud.

Sempre l’Unep in un altro studio ha individuato nel cibo a basso prezzo una causa di spreco e insostenibilità: i prezzi sarebbero ben altri se incorporassero i costi ambientali e sociali di questo tipo di produzione eccessiva e si sprecherebbe meno.

Anche in Italia non siamo messi molto bene: la ricerca evidenzia come lo spreco alimentare è stato per troppo tempo sottostimato e potrebbe essere di dimensioni più preoccupanti.

Obesità e malnutrizione sono in aumento, come anche le difficoltà di accesso al cibo; inoltre il nostro paese dimostra sempre meno autosufficienza alimentare: per alcuni prodotti siamo autonomi solo all’80%, per altri addirittura al 60%, effetto dell’abbandono progressivo delle terre agricole e dell’artificializzazione dei suoli.

Questo spiega perché lo spreco nostrano possa arrivare al 63% della produzione iniziale. Cioè più della metà di quello che produciamo (o introduciamo nel sistema alimentare) si perde. Ciò nonostante in Italia sia stata approvata una legge, la 166/2016, che affronta il tema e tra l’altro permette di donare le eccedenze e ottenere uno sconto sulla tassa dei rifiuti.

A livello europeo la discussione avanza, ma non nella direzione giusta affrontando solo il problema finale dei rifiuti.

La ricerca mostra che per prevenire lo spreco è necessario limitare la formazione di eccedenze con una trasformazione strutturale del modello agro-alimentare industriale prevalente.

Il cambio anche culturale e valoriale deve investire in primis il sistema di produzione, perché gli effetti negativi ambientali e sociali sono associati soprattutto alle fasi iniziali più che allo smaltimento dei rifiuti. Deve essere restituita al cibo la sua naturalità seguendo la strategia dell’autonomia alimentare per scardinare quegli effetti complessi che finiscono per determinare insicurezza alimentare nei paesi e nei soggetti economicamente deboli.

Le strade ci sono e la ricerca indica come gli sprechi siano molto minori in reti alimentari corte, locali, ecologiche, solidali e di piccola scala: la produzione di rifiuti è 3 volte inferiore, si arriva addirittura ad 8 quando entrano in gioco pratiche agro-ecologiche, gruppi di acquisto solidale (Gas) e comunità di produzione (Csa) dove i consumatori sono anche produttori; chi si approvvigiona solo con reti alternative spreca in media un decimo rispetto a chi lo fa con i canali convenzionali.

Questi sistemi alternativi agiscono positivamente su tutti i fronti dello spreco: riducono le intermediazioni e i passaggi; coordinano meglio capacità naturali, produzione, consumo e fabbisogni; aumentano la consapevolezza dei soggetti; garantiscono valori equi; gestiscono più efficacemente il poco invenduto. Sono prioritarie quindi politiche economiche di sostegno per facilitare la diffusione di questo tipo di sistemi.

errata corrige

Nella prima versione dell’articolo, era stato riportato un dato sbagliato: chi si rifornisce in reti alternative spreca un decimo di chi lo fa nei canali convenzionali, non un decimo in meno come erroneamente riportato. Ce ne scusiamo con l’autore della ricerca e con i lettori.