La spinta impressa dal direttore Edoardo Donatini a Contemporanea, armonizza le due sezioni del festival: gli allestimenti e gli alveari, ovvero il compiuto e l’abbozzo della messinscena. Un bipolarismo che fin dalla nascita marca l’impianto e il palinsesto della kermesse. Che per il secondo anno intercetta le fratture di una condizione umana sull’orlo del precipizio. Il «crollo» trova esplicita sintesi nei belgi Miet Warlop che estremizzano il concetto di equilibrio precario nella vertigine della rotazione, cerchio come estasi e prigione, accumulo e dispersione di energia, alterazione e delirio, più, ci è parso, artificio fisico che mistico turbinio. Centrale, in questo circuito di smarrimenti senza approdi, la diaspora femminile.

PORTATRICI di disagi, inquiete e irrisolte, ciascuno a suo modo, aprono gli alveari Daria Deflorian, Elena Bucci, Rita Frongia, Ilaria Drago, Licia Lanera. Se ne fa carico, ma con scapigliata ironia, anche Silvia Gribaudi, artefice di Graces, giocoso spazio coreografico dove la grammatica dell’armonia classica diventa sfacciata esibizione di eretiche forme. Sul nervo scoperto dell’Occidente, i catalani Señor Serrano (Leone d’argento Biennale teatro 2015) spiccano un volo intessuto di tecnologia e impegno. Birdie è Melilla (enclave europea in Africa), è l’offesa di un campo da golf, è la foto di José Pelazòn coi migranti aggrappati alla rete, trasferita negli Uccelli di Hitchcock, ma è anche la parola che segna un «punteggio inferiore di un colpo rispetto al par». Accostamento geniale. Come la scena percorsa da centinaia di pupazzetti ripresi e proiettati sullo schermo, che diventa metafora del dopo crollo, la desertificazione della civiltà. Cronaca lillipuziana di una apocalisse annunciata.